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Inventario storicoMario Schimberni e l'idea di Montedison "Public Company"

Mario Schimberni e l’idea di Montedison “Public Company”

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Schimberni entrò in rotta di collisione con tutto il capitalismo italiano, motivo? La trasformazione della Montedison in una public company.

Fine anni 70, la Montedison ed i conti in profondo rosso

1976: la Montedison, la maggiore società italiana nel settore chimico, chiude il bilancio con una perdita di esercizio di 60,6 miliardi di lire, che a livello di bilancio consolidato, riguardante cioè l’intero gruppo, salgono a 172.

E’ un autentico disastro per la società, nata nel 1966 dalla fusione tra la Montecatini e la Edison con il disegno di utilizzare nell’industria chimica i fondi liquidi di cui disponeva la Edison in seguito al pagamento degli indennizzi dovuti per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, di cui era stata il più grande produttore in Italia.

Solo due anni più tardi erano iniziate le manovre per porre la società sotto il controllo pubblico: l’E.N.I. acquistò il 48 per cento del capitale sociale, mentre un altro 48 per cento restò in mano ai privati (Pirelli, S.A.I., Sviluppo e Bastogi i maggiori azionisti) ed il due per cento andò a Mediobanca, che avrebbe dovuto fungere da ago della bilancia.

Nel 1970 divenne Presidente della Società l’ex Presidente del Senato Cesare Marzagora. Emerse, al momento del passaggio delle consegne, la presenza di “fondi neri” (17 miliardi di lire) destinati al finanziamento occulto della politica: Marzagora si dimise, prese il suo posto Pietro Campilli, un ex ministro democristiano, e il 22 aprile gli subentrò il Presidente dell’E.N.I. Eugenio Cefis.

Gli imprenditori privati non gradirono la oramai avvenuta pubblicizzazione della società, che si trovò dinanzi ad un duro rifiuto del capitale privato di dotare la società stessa di nuovi capitali, necessari per uscire dalla grave crisi in cui si trovava, mentre il Governo Moro, condizionato per la parte economica dal P.R.I. e dalla destra D.C., non autorizzò l’apporto di capitale da parte di soggetti pubblici (E.N.I., I.R.I.).

Entrarono in crisi i rapporti tra lo stesso Cefis e Fanfani mentre trovava sempre maggiori spazi nella D.C. Rovelli, Presidente della S.I.R., altra società che operava nella chimica in diretta competizione con la Montedison.

All’assemblea degli azionisti del 29 aprile 1977 Cefis si presentò dimissionario accusando il potere politico di aver provocato distorsioni nel settore chimico sia continuando a concedere incentivi a nuove società, sia non consentendo nuovi finanziamenti pubblici a Montendison, bloccando così i suoi programmi di risanamento e di espansione.

Presidente della società il 14 luglio 1977 divenne il senatore democristiano Giuseppe Medici, anche lui un ex ministro, ma era chiaro che si trattava di una soluzione transitoria, adottata solo per bloccare i tentativi del Presidente dell’E.N.I. Girotti di portare alla Presidenza della Montedison Alberto Grandi, candidato degli industriali privati in contrapposizione con quello dell’industria pubblica Leopoldo Medugno. Grandi divenne solo Vice presidente, carica che mantenne però per breve tempo: il 28 novembre 1977 infatti si dimise ed il suo posto venne preso da un tecnico di area socialista, fino a quel momento sconosciuto alle grandi platee degli azionisti: Mario Schimberni.

Chi era Mario Schimberni?

Nato a Roma il 10 marzo 1923, figlio di un barbiere con negozio in Via dei Serpenti e di una sarta, dopo aver frequentato l’Istituto tecnico Leonardo Da Vinci di Roma (dove conobbe Cesare Romiti), Schimberni si laureò in Economia e commercio con il massimo dei voti.

Scelse la carriera universitaria, fu assistente alla cattedra di Tecnica industriale e commerciale dell’università “La Sapienza” di Roma, ma abbandonò dopo nove anni l’incarico e trovò un impiego al Credito Italiano, che lasciò presto per il Cementificio dell’Isonzo e poi per l’INAM (l’allora Istituto nazionale assistenza malattie, soppresso dopo la istituzione del Servizio Sanitario Nazionale).

Lasciò anche l’INAM per la B.P.D., una società che operava nel settore della chimica e di cui divenne direttore generale (1964), per approdare infine alla SNIA Viscosa (1970) con la quale la B.P.D. si era fusa nel 1968 con una operazione finanziaria guidata da Mediobanca.

Della SNIA Schimberni fu prima direttore generale e successivamente, quando la Società entrò a far parte del gruppo Montedison (1974) amministratore delegato. A sostenere Schimberni fu Enrico Cuccia, che era stato il principale protagonista della privatizzazione di Montedison, fino al momento in cui aveva abbandonato Cefis, che aveva precedentemente sostenuto, (non è mai stato chiaro il motivo del contrasto) facendogli mancare i finanziamenti privati quando la situazione politica non gli consentiva di ottenere fondi pubblici (sui motivi del dissenso, nettamente politico, v. Piero Ottone, Il gioco dei potenti, Milano, 1985, pag. 290).

1980 Schimberni diventa presidente della Montedison

Schimberni, di area socialista, per Cuccia era il successore ideale di Cefis: la scalata alla Presidenza della Montedison lungamente preparata, finalmente si concluse il 24 aprile 1980, quando l’assemblea degli azionisti pubblici e privati nominò Schimberni Presidente della Società, di cui di fatto era già a capo, in quanto Vice presidente responsabile, oltre che per il controllo, gli affari legali e il personale, anche per il settore finanziario, il settore più delicato per una società in perenne carenza di capitali e con un forte indebitamento.

Il nuovo Presidente fece sentire immediatamente la sua presenza continuando quell’opera di risanamento finanziario e di dismissioni di settori non strategici che era iniziata con la Presidenza Medici.

Per alcuni profili la situazione della società era assolutamente anomala: possedeva giornali come “Il Messaggero” di Roma, ne finanziava altri, come “Il Tempo”, era presente con la “Standa” nella grande distribuzione, possedeva partecipazioni in una miriade di industrie manifatturiere oltre a quella di maggioranza in Montefibre, di cui Schimberni assunse la presidenza nell’aprile 1980, ed al tempo stesso i suoi stabilimenti chimici, primo fra tutti il complesso di Porto Marghera, avevano bisogno urgente di nuovi investimenti e cominciavano ad essere posti sotto accusa per le conseguenze negative per la salute degli operai delle lavorazioni effettuate e le esalazioni provenienti dagli impianti.

Schimberni: il risanamento di Montedison ed i rapporti con Cuccia e Mediobanca

Schimberni, da taluni detto “il pirata” per la sua tendenza a rompere gli schemi tradizionali, da altri “l’omino in grigio” per il suo aspetto fisico e la sua predilezione per gli abiti grigi, avviò il risanamento della società, i cui azionisti pubblici e privati faticavano a trovare un accordo (il patto di sindacato riuniva gli azionisti in possesso solo del 38 per cento delle azioni).

Montedison da anni ormai aveva un crescente indebitamento, anche per il peso degli oneri finanziari che conseguivano dal debito. La soluzione ottimale sarebbe stata un aumento del capitale sia per il riequilibrio della situazione finanziaria che per la realizzazione del programma industriale (Relaz. del Cons. di Amm. all’assemblea degli azionisti del 2 giugno 1981), ma non era una strada facile da percorrere in quanto gli azionisti privati non erano disponibili ad investire nuovi capitali in una società che restava sempre a prevalente partecipazione pubblica.

Intervenne ancora una volta Cuccia: il 28 giugno 1981 Mediobanca acquistò il 7,1 per cento del totale delle azioni prima detenute da E.N.I, I.R.I. e S.I.R. e le cedette successivamente a Gemina, una società di cui la stessa Mediobanca ed i soci privati avevano il controllo. Montedison fu ricapitalizzata con capitali bancari e Gemina entrò nel nuovo sindacato di controllo.

Altro problema era l’insufficiente internazionalizzazione della società, che aveva poche attività produttive localizzate all’estero, con la conseguenza di una scarsa conoscenza dei mercati stranieri e la impossibilità di diversificare i rischi di localizzazione e di trarre vantaggio dalle eventuali opportunità esistenti. Fu pertanto elaborato tra il 1980 e il 1981 un piano in cui per 76 aree di affari si individuavano le strategie di investimento o di disinvestimento in relazione anche alle posizioni conseguite dalla società su vari mercati nei confronti della concorrenza.

Al tempo stesso fu messo mano al riassetto del settore chimico in Italia: furono introdotte innovazioni nel processo produttivo, potenziata la ricerca, sostituita gran parte della dirigenza anche per il superamento della vecchia struttura organizzativa e gestionale fortemente accentrata e trasformata Montedison in holding finanziaria, costituendo sei nuove società operative (Montedipe, Montepolimeri, Ausimont, Resem, Ferrimont e Farmoplant) che si aggiunsero alle quattro esistenti (Acma, Farmitalia Carlo Erba, Montefibre e Standa), ciascuna per la gestione delle attività del gruppo in un settore determinato.

Alla fine del 1981 Ausimont a sua volta divenne una holding finanziaria, dando in affitto le sue attività industriali a tre società (Montefluos, Ausidet e Ausind). Al tempo stesso vennero create al centro due aree di riferimento, una per la chimica di base e una per la chimica fine.

Come conseguenza della ristrutturazione furono posti (febbraio 1981) in cassa integrazione ben 7.200 dipendenti, ma la situazione complessiva non accennava a migliorare, anche per la crisi profonda di Montefibre e Standa.

A fine 1981 anche Montefibre diventò una holding, dopo essere stata ricapitalizzata: un miglioramento dei conti economici arrivò solo a fine 1983, dopo il concentramento dell’attività solo nei settori più redditizi e il licenziamento in tre anni di circa 7.000 addetti.

Anche Standa fu risanata con alcune cessioni e chiuse in attivo il bilancio per il 1982, pure se il margine operativo restava negativo.

L’ACNA, l’azienda divenuta nota per l’inquinamento della Val Barnuda, venne nel 1984 posta in liquidazione dopo aver accertato l’impossibilità di un adeguato risanamento che consentisse di porre termine alle crescenti perdite di esercizio.

Nel marzo 1983 divenne esecutivo un accordo realizzato con l’E.N.I. in base ad un documento congiunto del Ministero delle Partecipazioni statali e di quello per la Cassa del Mezzogiorno, per ripartire le attività nella chimica, con trasferimento reciproco di impianti e collaborazioni collaterali.

Come conseguenza Montedison ottenne la leadership in Italia per il polietilene e il polistirolo, mentre l’ENI l’ebbe per l’etilene ed altri prodotti. In conseguenza dell’accordo Montedison ottenne anche la possibilità di emettere 229 miliardi di obbligazioni garantite dallo Stato oltre ad altri benefici, quale corrispettivo delle cessioni operate a favore dell’ENI di alcuni rami d’azienda e di partecipazioni azionarie.

Sembrò veramente che il nuovo Presidente avesse operato il miracolo. Erbamont, la società che riuniva tutte le aziende Montedison nel settore farmaceutico, prima fra tutte la Farmitalia Carlo Erba, dava ottimi risultati e Iniziative Meta, la società in cui furono riunite alla fine del 1983 tutte le attività Montedison nel settore dei servizi, Standa compresa, produsse presto circa il 20 per cento del fatturato Montedison 1983 — 84 ed intervenne (1984) con Gemina nel salvataggio della Rizzoli acquisendo il 23,14 per cento della società.

La relazione del 1984 Montedison è salva!

Schimberni, nella relazione al bilancio 1984, potè trionfalmente affermare che i maggiori problemi erano alle spalle: “Montedison ha una nuova struttura. Abbiamo selezionato il nostro portafoglio prodotti: abbiamo finalità strategiche ben precise. Sappiamo chi siamo… sappiamo dove vogliamo andare… ora il nostro menagement è innovativo, flessibile, ha idee aperte ed accetta la sfida del mutamento”.

Schimberni aveva ragione di cantare vittoria: quell’anno, dopo molti anni, Montedison chiudeva il suo bilancio in attivo: perdurava però la debolezza strutturale dell’industria chimica italiana ed il processo di razionalizzazione della chimica di base era rimasto incompiuto per la resistenza dei gruppi pubblici e privati ad accettare la logica della concentrazione industriale richiesta dalla necessità di competere sui mercati mondiali con i colossi stranieri (Dow Chemical, Dupont, Monsanto, Akzo, Ciba-Gagy).

Schimberni e l’idea di trasformare Montedison in public company

Il vero punto debole era però l’azionariato che subiva continue modifiche (cominciò, alla metà degli anni ’80, ad aumentare la presenza degli investimenti esteri). Al tempo stesso il superamento della crisi, con l’allentamento dei vincoli economici che limitavano la possibilità di scelta tra opzioni industriali diverse, orientava gli azionisti verso un restringimento degli amplissimi poteri conferiti al management della società qualche anno prima per superare le difficile situazione esistente.

È a questo punto che Schimberni giocò tutte le sue carte in un progetto nuovo per l’Italia che lo portò rapidamente in rotta di collisione con tutto (o quasi) il capitalismo italiano: la trasformazione della Montedison in una public company.

In una intervista a “Il sole 24 ore” (30 aprile 1986) Schimberni espose chiaramente il disegno di trasformare Montedison in “una società a proprietà diffusa” con il capitale fortemente frazionato tra investitori istituzionali e azionisti privati che fossero interessati ad una redditività di medio — lungo termine e propensi a valutare l’operato del management in questi termini piuttosto che essere interessati a partecipare direttamente alla gestione della società.

Successivamente Schimberni, il vecchio assistente universitario, ebbe cura di chiarire anche i termini scientifici della sua proposta ponendo a confronto il sistema finanziario d’impresa europeo, caratterizzato da un approvvigionamento di mezzi finanziari attraverso le banche, e una struttura proprietaria preoccupata di mantenere il controllo del capitale societario e quindi restia a finanziare gli investimenti emettendo azioni.

Il sistema, ad avviso di Schimberni, aveva perduto l’equilibrio a partire dagli anni ’70, quando la incapacità di autofinanziamento aveva prodotto un incremento notevolissimo dell’indebitamento bancario, con conseguenze negative sulla redditività delle imprese.

La soluzione era, a suo parere, il ricorso diretto al capitale di rischio, come negli Stati Uniti. Torto o ragione che avesse Schimberni sul piano teorico (la questione di fondo è anche oggi dibattuta dagli economisti) sta di fatto che, al fondo della sua teoria non è difficile intravedere la individuazione nella composizione dell’azionariato della crisi della Montedison e dei suoi motivi più profondi, specie se si riflette che le sorti della società erano state decise da azionisti che detenevano limitati pacchetti azionari, spesso contro gli interessi degli altri azionisti che erano ancora 300.000.

Schimberni certamente non ignorava che il passaggio alla pubblic company non era facile né agevole: esso fra l’altro incideva direttamente nell’assetto del capitalismo italiano dal momento che tutti i grandi gruppi industriali italiani partecipavano al capitale di Montedison e che le sorti della Società ( a prescindere da quelle dello stesso suo Presidente) erano state decise da una banca, anche se anomala come Mediobanca.

Probabilmente ritenne che quella da lui indicata fosse l’unica strada per non essere travolto dalla crisi della società, che era solo momentaneamente superata e mosse all’attacco. Per raggiungere il suo obbiettivo, ancora non chiaramente enunciato (lo farà con estrema chiarezza solo il 22 gennaio 1987, in una intervista a “La Repubblica) nel 1985, tramite la Longobardfin di Paolo Mario Leali, si impossessò della maggioranza della BI – INVEST, società del gruppo Bonomi, azionista di Gemina (principale azionista di Montedison) con la spesa di 320 miliardi di lire.

L’anno successivo fu la volta della società di assicurazioni “La Fondiaria” che era una sorta di “salotto buono” della finanza italiana: con un colpo di mano nell’estate 1986 Schimberni profittò del fatto che sei banche straniere offrivano il 12 per cento del capitale della società ed acquistò il pacchetto azionario in vendita: Montedison aumentò così la sua partecipazione ne “La Fondiaria”, che era tra i principali azionisti di Montedison, dal 25 al 37 per cento.

Schimberni e la rottura con Cuccia

Si presentò a Firenze alla riunione del sindacato di controllo della società di assicurazione e lesse otto cartelle in cui spiegava i motivi dell’intervento: Cuccia, infuriato, intimò “Ora lei deve ascoltare”, Schimberni replicò “lo non ascolto proprio nulla” e se ne andò. Era la rottura, pubblica e plateale, tra due persone che da anni apparivano legate da stretta amicizia.

Agnelli, presente alla scena, commentò con una frase restata celebre (“Bi-Invest humanum, Fondiaria diabolicum”) che chiariva quali sarebbero stati da quel momento i rapporti con il Presidente di una società come Montedison, della quale FIAT, attraverso l’IFIL, era azionista di rilievo.

Schimberni in questo modo da manager aveva sfidato i suoi azionisti: se volevano comandare in casa sua, lui avrebbe comandato in casa loro: non era un gesto che poteva passare inosservato.

Cuccia chiese subito a Carlo De Benedetti di entrare nel capitale di Montedison per acquistarne il controllo: il 3 ottobre 1986 l’accordo sembrò fatto e la sorte di Schimberni segnata.

Schimberni e l’arrivo di Gardini

Cuccia, solitamente bene informato, ignorava però che alla Montedison guardava già da tempo Raoul Gardini del Gruppo Ferruzzi. Fu infatti Gardini, d’accordo con Schimberni, che battè sul tempo De Benedetti, scalò la Montedison acquistando azioni sia sul mercato, sia dal gruppo Pesenti che dal gruppo Varasi, e dallo stesso gruppo De Benedetti, dopo che questi aveva visto fallire il suo progetto, fino a detenere il 37 per cento del capitale sociale. Schimberni era convinto di poter trovare un accordo con Gardini, ma questa volta aveva sbagliato i suoi calcoli.

Alimentati anche dalla crisi finanziaria, lievitarono presto i dissensi: nemmeno due mesi dopo (dicembre 1986) Schimberni lasciò la presidenza della società. A quel momento la società aveva circa 9.000 miliardi di debiti.

I processi contro Schimberni ed i reati contestati

Degli anni passati alla Montedison, oltre ai ricordi, restarono per Schimberni gli strascichi giudiziari.

Il 7 dicembre 1993 il P.M. Francesco Greco, che stava procedendo per i finanziamenti occulti della Montedison ai partiti poltici, ordinò l’arresto di Schimberni per falso in bilancio: dal 1984 al 1986 avrebbe mascherato perdite di esercizio per circa 500 miliardi di lire dell’epoca.

A Schimberni furono concessi gli arresti domiciliari, ma presto fu di nuovo libero. Uscirà dalla vicenda solo nel 1999, per prescrizione del reato. Lui stesso in alcune interviste confermerà che la Montedison versava a P.S.I. e D.C. dai 400.000 ai 600.000 dollari l’anno attraverso una consociata (l’International Holding) su banche estere e che la richiesta di Craxi era arrivata a 1.200.000 dollari per finanziare il P.S.I. (v. interviste Corriere della sera 28 e 29 settembre 1994).

Nel dicembre 1995, altra incriminazione di Schimberni, quale ex Presidente della Montedison, insieme a Cefis, per i decessi degli addetti alle lavorazioni del cloruro di vinile nel Petrolchimico di Marghera: il processo si concluderà nel 2001 in primo grado quando Schimberni era già deceduto.

Il 18 novembre 1988 scoppiò uno scandalo alle Ferrovie dello Stato per tangenti pagate per un appalto di 152 miliardi di lire per la fornitura di lenzuola, oltre ad altre irregolarità, in cui risultarono coinvolti il Presidente dell’Ente, alcuni consiglieri di amministrazione e il direttore generale, oltre ad alcuni funzionari.

Il presidente Ludovico Ligato, il consiglio di amministrazione ed il direttore generale vennero costretti alle dimissioni dagli incarichi ricoperti (Ligato sarà ucciso da persone restate ignote il 27 agosto 1989 a Boccale di Reggio Calabria) e Schimberni viene nominato Commissario straordinario dell’ente (30novembre 1988) con i poteri del Presidente e del Consiglio di Amministrazione.

Lo scontro con il Ministro dei trasporti Bernini che aveva sostituito Santuz nel VI Governo Andreotti (31 luglio 1989) fu immediato: Schimberni era stato nominato dal precedente Presidente del Consiglio De Mita, sentito il parere di Craxi e Bernini, faceva parte di un Governo che non si sente vincolato alle scelte di quello precedente. La tesi del neo — Commissario è che era anzitutto necessario tendere a riequilibrare i conti dell’Ente, che aveva un pesante deficit, accantonando per il momento il progetto dell’alta velocità per migliorare il trasporto ordinario: affermò che in quel momento la T.A.V. significava “un motore di fuoriserie montato su una utilitaria”.

Bernini insistè per l’alta velocità e il piano di rilancio delle Ferrovie elaborato da Schimberni non ottenne il consenso del Parlamento e del Governo. La sua “cura dimagrante” (tagli al personale, chiusura dei “rami secchi” (cioè delle tratte ferroviarie improduttive) e dei cantieri per l’alta velocità, razionalizzazione delle partecipazioni delle ferrovie dello Stato in molte società con i bilanci in passivo) incontrò l’ostilità di politici ed imprenditori.

Quella di Schimberni fu quasi una sfida: constatato che non esistevano forze sufficienti in grado di raccoglierla, si dimise dalla carica (maggio 1990) e fu sostituito da Lorenzo Necci. Si ricordò di lui nove anni più tardi il Procuratore della Repubblica dì Piacenza, che inviò (1997) a lui come ad altri ex amministratori delle Ferrovie dello Stato un avviso di garanzia, quando un “Pendolino” ebbe un incidente dovuto alla mancanza di dispositivi automatici di sicurezza: il fatto non ebbe però per Schimberni alcun seguito.

Conclusa l’esperienza delle Ferrovie dello Stato, tornò ad occuparsi della Armando Curcio Editore, una casa editrice acquistata tramite la Fincentro, la sua società finanziaria, nel 1988, e di cui era Presidente, con amministratore delegato Matilde Bernabei, che aveva ricoperto lo stesso incarico presso la società editrice de “Il Messaggero”, quando Schimberni era Presidente di Montedison.

Il progetto era l’espansione a livello internazionale della casa editrice, che infatti acquistò in Spagna nel 1990 la casa editrice Sarpe. I risultati non furono quelli previsti, le perdite di esercizio crebbero rapidamente fino a raggiungere nel 1994 i 246 milioni di lire. La Curcio (giugno 1993) chiese l’amministrazione controllata, ma fu inutile: nel febbraio 1994 la società viene infatti iscritta nel registro dei fallimenti. Verrà venduta nel 1999, dopo molte difficoltà: per venderla fu necessaria una inserzione sul settimanale “Porta Portese”.

Schimberni ancora una volta tentò di tornare in gioco trasformando la sua Fincentro in una merchant banck: il fallimento della Curcio era una ferita profonda al suo orgoglio di amministratore e finanziere. Morì a Parigi, dopo lunga malattia, il 17 maggio 2001.


Bibliografia

  • Giancarlo Galli, Il padrone dei padroni, Milano, 1995.
  • Alves Marchi — Roberto Marchionatti, Montedison, 1966 — 1989, Milano, 1992.
  • Piero Ottone, Il gioco dei potenti, Milano, 1985.
  • Giuseppe Turani, Razza padrona n. 2, Milano, 2004.

Non esiste una bibliografia specifica su Mario Schimberni. Le notizie su Schimberni sono ricavabili solo dai giornali (v. per una sintesi il necrologio pubblicato su “Repubblica” del 18 maggio 2001) ed in particolare da Repubblica, Il Corriere della sera e Il sole — 24 ore, i cui archivi sono consultabili on line.






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