Purtroppo i dati non sembrano essere equivocabili: a partire dal 20 febbraio la lenta discesa del numero dei ricoverati ha lasciato il posto ad una risalita che, nell’arco di otto giorni, ha portato il loro numero a crescere da 19.788 a 20.869, circa 1.000 in più in una settimana.
Non ho particolari titoli per scrivere dell’argomento se non quello di essere un cittadino (e contribuente) italiano e di avere una formazione professionale e una pratica quasi quarantennale nell’analisi dei dati statistici. Per diverse ragioni considero il “numero dei ricoverati” l’indicatore più affidabile per avere un’idea sia dell’andamento della pandemia (anche se con un ritardo di circa una settimana) sia della sua “criticità” (la pressione sulle strutture ospedaliere).
Come accennato questa variabile ha avuto un andamento lievemente ma costantemente decrescente a partire dal 12 gennaio (26.348) fino al 20 febbraio (19.788) per poi cambiare dinamica. Durante questa fase si è seguita la tattica di “risposta flessibile” -elaborata dal CTS e dal Ministero della salute nell’ultima fase del governo Conte- consistente sostanzialmente nella definizione di livelli scalabili di restrizioni alla mobilità e alle relazioni sociali da applicare su basi regionali a seconda dell’andamento rilevato di una serie di variabili (la “colorazione” delle regioni). Ciò che non mi ha mai convinto di questa modalità di azione, di per sé ragionevole per “tenere sotto controllo” la situazione, è stata la sua applicazione ad un contesto in cui i valori di partenza erano troppo alti sia dal punto di vista della diffusione del contagio (e quindi della possibilità di gestire in modo efficace le pratiche di test e tracciamento) sia da quello della pressione ospedaliera. Questo determinava una fragilità del sistema di fronte ad una potenziale recrudescenza della diffusione del virus di qualunque origine (per esempio le c.d. “varianti”).
I dati ci dicono che nell’ultima settimana (22-28 febbraio) sono stati effettuati 2,074 milioni di tamponi (tra antigenici e molecolari) su un totale di 678.881 casi individuando 116.124 nuovi positivi, pari al 17,1% dei casi testati: una percentuale abbondantemente superiore a quella considerata opportuna per effettuare politiche di “tracciamento” efficaci. Vale la pena di notare che nella settimana precedente (15-21 febbraio) i casi positivi rilevati erano stati decisamente di meno sia in termini assoluti (87.367) che di incidenza sui 629.977 casi testati pari al 13,9%.
Che la situazione stia peggiorando sembra, dunque, purtroppo abbastanza evidente. Per il momento la dinamica è contenuta, ma l’esperienza dovrebbe averci insegnato che più si va avanti più le dinamiche di crescita si accentuano e più è difficile porvi rimedio.
Il nuovo governo non ha cambiato il responsabile politico della sanità né, almeno per il momento, è intervenuto a modificare la struttura tecnico-scientifica di riferimento la quale sembra orientata a riproporre la tattica della risposta flessibile con alcuni inasprimenti. Le maggior parte delle discussioni pubbliche sulle singole misure restrittive settoriali appaiono francamente contraddittorie e strumentali (con i sostenitori della riapertura dei cinema che si indignano per le richieste di riapertura dei ristoranti e viceversa…).
Io credo che la questione vera sia la stessa di due mesi fa, ma che -viste le ultime evoluzioni- si pone in termini più drammatici e urgenti e cioè la valutazione oggettiva della proposta di alcuni epidemiologi (e non solo) di procedere ad un lock down generalizzato, programmato e temporalmente limitato (si parla di un paio di settimane), che è l’unico strumento di cui al momento disponiamo per cercare di evitare che la pressione sui sistemi di test, tracciamento e trattamento vada fuori controllo determinando la necessità, tra poche settimane, di interventi ancora più drastici e prolungati.
Gli impatti economici e sociali di una simile scelta sono elevati, ma gli impatti economici e sociali del non farla rischiano di essere molto più drammatici.