martedì 5 Novembre 2024
Brava genteNell'assoluzione del Sindaco Mimmo Lucano c'è molto degli insegnamenti dell'antica grecia

Nell’assoluzione del Sindaco Mimmo Lucano c’è molto degli insegnamenti dell’antica grecia

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di Mario Pacelli e Aldo Di Russo

Non ci sono giudici in Danimarca afferma sconsolato Amleto: nel caso di Mimmo Lucano i giudici almeno ci sono stati. Ci sono stati e hanno assolto il sindaco di Riace di tutte le colpe amministrative di cui un ministro degli Interni, rabbioso e intollerante, lo aveva accusato per aver mostrato un briciolo di umanità, al di là di controverse interpretazioni di questa o quella norma.

Qualche migliaio di anni prima Sofocle ai tempi in cui furono fuse le statue recuperate in fondo al mare proprio di fronte a Riace, aveva rivendicato nella sua Antigone il diritto di superare se necessario gli ordini del tiranno in nome della umanità. Matteo Salvini ha avuto dai giudici del Consiglio di Stato, che hanno assolto Mimmo Lucano dalle colpe contestategli, lo stesso trattamento che il drammaturgo greco riserva al tiranno Creonte: la sconfitta.

In tempi come questi non è poco: una volta tanto la speranza di un mondo migliore è prevalsa sull’odio, sull’intolleranza, sulla negazione dell’uomo. Grazie, uomini del Consiglio di Stato, per esservi sentiti membri del consorzio umano prima ancora che giuristi: grazie.

Heri dicebamus” (lo avevamo detto) è il titolo di una delle prediche inutili di Luigi Einaudi: lo possiamo dire anche noi di Moondo a proposito del sindaco Mimmo Lucano, di cui due anni fa, con l’articolo di Aldo di Russo, sostenevamo la causa.

Mario Pacelli

Per chi fosse interessato riproponiamo l’articolo di Di Russo pubblicato su Mondo Cultura il 25/10/2018.

Il modello Riace: tra Platone, Aristotele e Raffaello

Cosa c’entra Riace ed il suo sindaco con uno degli affreschi più importanti del Rinascimento? 

Nulla se siamo abituati a leggere la superficie delle cose e a considerare le vicende umane come monadi impenetrabili, molto se si appartiene alla schiera di persone “affamate di profondità” come il Corriere della Sera di oggi chiama i lettori della collana dei classici greci in edicola. Eppure c’è nell’aria qualcosa che lega inesorabilmente le azioni degli uomini di oggi ai principi su cui l’occidente si è formato, ai suoi miti, ai suoi valori, alla sua filosofia come un comune denominatore concettuale della nostra struttura sociale. Il Rinascimento è stato lo “spedizioniere” di quei valori, il “seminatore” di una civiltà comune all’intera Europa. Una ristrutturazione di tali valori con al centro l’uomo nella ricerca della virtù e della verità come suo fine ultimo.

Partiamo da Riace, piccolo paesino dell’entroterra ionico calabrese che, vuoi perché ci hanno ritrovato i bronzi, vuoi perché Wim Wenders lo utilizzò come set del suo film Il Volo, vuoi perché il sindaco Mimmo Lucano venne incoronato dalla rivista Fortune tra le 50 personalità più influenti del mondo, vuoi ancora perché lo stesso viene oggi posto agli arresti domiciliari, Riace periodicamente torna agli onori delle cronache.

Quando Wim Wenders venne in Italia a girare il suo film, un cortometraggio sull’accoglienza come forma di civiltà, credo fosse il 2009, il montatore del film Roberto Perpignani mi mostrò alcune sequenze in anteprima chiedendomi un parere. Rimasi colpito dalla sequenza di un bambino che giocava a pallone da solo tra i vicoli scoscesi del paese. Inseguiva la palla e calciava con forza contro un muro, entrava nel campo di calcio vuoto cercando un dribbling per saltare avversari che non esistevano. Era solo. La scelta stessa del pallone: un suicidio psicologico, l’idea di squadra: una chimera. Si intuisce poi che in paese dovevano essere arrivate dal mare delle persone, famiglie, umanità, e lo si intuisce, questa è la magia del cinema, dal fatto che il bambino lo si vede tra i pali della porta del suo piccolo campo di calcio, nella posa in cui aveva visto Buffon in televisione. Agile e molleggiato sulle gambe. Un tiro teso dall’esterno dell’inquadratura, forse un rigore, lo costringe ad un balzo di lato. Il pallone finisce in rete. Goooool! Qualcun altro ha tirato la palla. Il bambino aveva smesso di essere solo.

Ecco Riace, un piccolo paese della Calabria che raccoglie due tra le più belle statue di bronzo del mondo greco naufragate o come qualcuno crede, buttate a mare per liberarsi di un peso da una imbarcazione in difficoltà che verosimilmente trafficava in antiquariato. Ecco Riace, un piccolo paese della Calabria che ricostruisce la propria economia da paese abbandonato a centro di accoglienza e sperimenta il paradigma virtuoso (per favore attenzione a questa parola, tornerà nell’analisi del quadro di Raffaello).

Ecco Riace, un sogno per molti: il riscatto del sud dallo spopolamento e dalla migrazione forzata di chi non trova lavoro, il riscatto dalla malavita organizzata, il riscatto dalla rassegnazione che è forse la peggiore malattia di quelle terre. Lo sforzo di costruire una comunità dove le leggi del mercato avevano edificato il vuoto.

Ecco Riace, dove un sindaco è accusato di aver violato alcune norme amministrative nelle operazioni di accoglienza, di aver contravvenuto a norme sugli appalti avendo affidato ad una cooperativa sociale la raccolta dei rifiuti e di aver favorito l’immigrazione.

Quando si costruisce un sogno esiste una legge a norma della quale si possa sognare? Si può rimanere indifferenti ad una richiesta di aiuto per rispettare una norma amministrativa? Certo che la risposta la daranno gli organi giudiziari e solo loro, noi modesti equilibristi sul filo della storia (o della filosofia in questo caso) andiamo a cercare una risposta non giudiziaria a questa domanda in un affresco dei primi anni del 1500.

La Scuola di Atene uno degli affreschi di Raffaello la cui immagine è famosa in tutto il mondo. Code di turisti aspettano, anche questa mattina, di poterla ammirare nella stanza delle segnature nella città del Vaticano, a pochi passi dalla cappella Sistina. Si tratta di una scena che ritrae una moltitudine di persone intente al dialogo. Per dirla con il linguaggio dei greci: alla ricerca della verità. Una scuola tanto ideale quanto immaginaria, una comunità prima di tutto in cui dialogare, discorrere, dimostrare, pensare sono attività frenetiche. Oggi, così, si dipingerebbe un mercato dove però ciascuno gira, sceglie, acquista, solo per suo conto. Raffaello no, per celebrare il Papa ed il suo Rinascimento dipinge un’angolo di polis in cui uomini diversissimi sono uniti dalla voglia di conoscere. Si celebra il sapere come metodo per la costruzione di una civiltà le cui radici sono nella filosofia greca. Porta il nome di Atene, ma accoglie insieme personaggi e interpreti, diremo oggi, attori e caratteri che coprono 2000 anni di storia e che continuano a convivere nel pensiero moderno. Parmenide e Averroè, Pitagora ed Euclide, Bramante, Leonardo, Sangallo, genti vissute in punti diversi del mondo conosciuto e uniti in quel luogo dal fatto di essere una comunità dedita alla conoscenza.

Al centro dell’affresco ci sono due figure emblematiche alle quali Raffaello ha affidato il ruolo da protagonisti. Due attori che rappresentano altro. Sono Leonardo da Vinci riconoscibile facilmente anche da chi non abbia mai maneggiato le banconote da cinquemila lire e Bastiano da Sangallo alla sua destra, un volto meno conosciuto che lascia dubbi a molti studiosi. I due attori rappresentano rispettivamente Platone riconoscibile tanto dal libro che porta sotto il braccio: il Teeteto, il trionfo del pensiero puro come mezzo di conoscenza, quanto dal dito indice puntato verso l’alto, oltre il cielo, nell’iperuranio dove avevano sede le idee e la perfezione. Di fianco Aristotele, anche lui riconoscibile sia per la copia dell’etica nicomachea, l’opera che il grande filosofo scrisse su come l’uomo virtuoso debba comportarsi in ragione del benessere collettivo, sia per la posizione della sua mano che con il palmo rivolto verso terra indica a Platone la sua obiezione principale: il fatto che i principi vadano applicati alla vita politica, alle comunità, alla felicità. L’etica è politica sembra dire con lo sguardo a Platone pensando a Riace.

Non protestate, se la messa in scena è immaginaria e fa convivere persone lontane 1500 anni anche a me sarà concesso in queste righe l’uso dell’immaginazione.

Da quello sguardo nasce il fuoco dell’intero affresco, la logica, la razionalità come strumenti di ricerca per l’uomo. Nel libro che tiene tra le mani e che Raffaello mostra al visitatore con molta enfasi, Aristotele mette l’uomo di fronte ad una scelta: cosa deve guidare il comportamento del politico virtuoso? Deve seguire i principi codificati da un codice morale, la sua sapienza o applicare la saggezza come via verso la felicità collettiva? Rigido alle norme ideali o flessibile come può esserlo un sapiente? Mettendo su due piatti della bilancia queste due sorgenti di vita sophia: la sapienza e phronesis: la saggezza, Aristotele indica all’uomo la via della seconda. Non per violare la norma, ma perché, egli dice, la vita mette l’uomo di fronte ad eventi imprevedibili che, essendo tali, non possono essere codificati, oppure perché ci si trova di fronte ad una norma che se applicata non porterebbe benessere alla città. Essere virtuoso per Aristotele significa sapere scegliere la soluzione migliore, essere virtuosi significa cercare la felicità per la collettività. L’etica per Aristotele è politica. Nello spazio delle manifestazioni umane la saggezza è flessibilità di fronte alle norme. Per questo Raffaello dipinge Aristotele con il palmo della mano rivolto a terra, il luogo ove i principi diventano vita.

Quale è, allora il valore della giustizia? Applicare al caso concreto il principio del buon padre di famiglia diremmo oggi.

Questo affresco è straordinario, è davvero la sintesi di un mondo di transizione in cui il pensiero antico si fonde in un nuovo mondo e rinasce, appunto, verso nuovi orizzonti. Ma c’è un’altra cosa che volevo raccontarvi che mette in relazione Riace con l’etica e l’affresco. Nel libro VIII di quel trattato, Aristotele fa uno degli inni più belli che la letteratura ricordi alla amicizia tra gli uomini. La parola che Aristotele usa è phylia che traduciamo amicizia, ma capite bene quale radice contenga. Noi, in italiano, non usiamo solo la parola figlio per definire colui che abbiamo generato, ma anche in espressioni come “povero figlio!” Oppure “vieni figlio mio” rivolto ad uno sconosciuto che si voglia aiutare. In italiano phylia si comprende bene anche oltre la traduzione sempre un po’ approssimativa. Gli dei nella loro onnipotenza possono vivere per se stessi, nulla potrà intaccare la loro forza, ma l’uomo è talmente debole e insicuro che, per esistere, deve cercare una forza quasi divina al di fuori di sé e la trova solo nel bisogno degli altri. Dunque per Aristotele la phylia è una virtù politica, è saper riconoscere le ragioni proprie e quelle degli altri per trovare soluzioni pratiche ai problemi concreti e non piombare nella violenza e nell’odio.

Questa è l’etica secondo l’affresco: impegnarsi a rendere il più umano possibile questo mondo affrontando le difficoltà e trovando soluzioni per essere in pace con la propria coscienza. Attori, personaggi, scenografia, costumi, posizioni, luce, accessori di scena diremmo oggi, sono segni inequivocabili di una strategia narrativa che fa convivere filosofie diverse, diverse posizioni religiose ( considerate che l’affresco è nello studio del papa che lo ha commissionato) pensieri diversi e profondamente diversi dal nostro. In un mondo che deve rinascere, questo ci dice Raffaello, ragionare su quelle differenze significa capire di più dell’oggi. L’oggi di Raffaello è il nostro ieri, sono passati 500 anni da quell’affresco e più di 2300 da quei libri, il pensiero antico è ancora l’archetipo della nostra cultura. Conoscerlo e saperlo riadattare ai tempi è lo strumento della nostra civiltà. E Riace? Ai giudici la sentenza!

Aldo Di Russo






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