Come era prevedibile l’attenzione degli osservatori si è focalizzata sui grandi comuni e, en passant, sull’astensione al voto.
Vero è che al di sotto dei quindicimila abitanti è difficile attribuire ai sindaci eletti chiare indicazioni di appartenenza (ricordo che in ere storiche lontane faceva fede per i cronisti la valutazione in merito delle prefetture, oggi chissà?). Ma la prudenza degli studiosi di scienze politiche dovrebbe far pressione sui giornalisti, analisti ed i così detti leader di “partito” perché non indulgano troppo facilmente alla accettazione supina della descrizione dell’Italia a strati, secondo la quale il paese è diviso tra grandi metropoli, dove furoreggia la sinistra che sarebbe rappresentata dal PD, ed i centri minori e periferici che rappresenterebbero le diverse destre ed il centro oscillante che si riconosce nel berlusconismo.
Nel frattempo, l’apoteosi della percezione come sintesi dell’analisi ha dichiarato morto il populismo, fenomeno complesso e disarticolato, definendo l’estinto causa prima del non voto che, per la prima volta si è attestato mediamente attorno al 50% e più del 50% a Roma, non limitandosi alle grandi città ma distribuendosi, seppure con alcuni valori superiori al 50% medio nazionale.
Con il ritardo dei grandi Giuseppe De Rita ha deciso che l’aumento dell’astensionismo è dovuto al fatto che “sono passate le ondate emozionali, quando si votava contro Craxi o la DC”.
Sempre sul quotidiano Il Mattino (6 ottobre, pag.10) il sociologo, già presidente del CNEL nella deplorata prima Repubblica, afferma attorno alla astensione che “il problema mi sembra chiaro: è la fine dell’antipolitica che abbiamo vissuto per almeno 15-20 anni, ma forse anche di più, forse è giusto parlare di 30 anni, dall’epoca di tangentopoli, cioè: prima la delegittimazione morale della politica e dei partiti, poi una più diffusa antipolitica: “ma che ci stanno a fare i politici”, “uno vale uno”, “ il Parlamento è lento” e così via… Ora ritorna la politica, per certi versi, anzi la gente vuole la politica… ritorna (effetto Draghi N.d.R.) la politica che fa le cose… e questo fa sì che la gente non si innamori più dell’occasione elettorale… la politica delle cose oggi viene di fatto delegata al governo e quindi non c’è più tanta voglia di andare alle urne”.
Il vizio logico delle osservazioni del professor De Rita è evidente: un popolo emozionato, emozionabile, influenzabile improvvisamente rinsavisce e non si reca al voto per effettuare così una singolare e non formale modifica della Costituzione, atta ad attribuire ai competenti tecnocrati la guida ferma della res publica.
Questo tipo di analisi e di valutazione storica (“forse l’antipolitica dobbiamo farla risalire a tangentopoli”), non dà risposte logiche, ma permette di salvare se possibile la faccia dinnanzi ai posteri per giustificare nel presente la speranza che si realizzi il vecchio sogno, fallito nella sua realizzazione, il bipolarismo, esecutivo centrico, progettato contro la Grande Riforma socialista, peraltro con differenze evidenti, all’interno della vecchia DC ( De Mita- Prodi, Parisi) e fatto proprio per obbligata sopravvivenza, e con diverse accentuazioni interne, dai comunisti, ma alla fine confezionato da Valter Veltroni e Prodi, e condiviso nel centro-destra da Berlusconi.
Proviamo, una volta tanto, a non militare nel grande Partito Conformista Italiano (copyright di Marcello Veneziani, chapeau all’intelligenza), a prendere le distanze dal pensiero unico dominante, dall’ossessione del politicamente corretto, dal berlinguerismo che sostituì l’etica col moralismo che non trasformò la sinistra comunista in socialdemocratica, ma educò il popolo al giustizialismo.
Proviamo a superare il bipolarismo intellettuale che in modo schizofrenico esalta le apparenze, cela le realtà, crea false “trasparenze” e reali poteri questi sì, se non nascosti, certamente poco visibili e ben presidiati da editori, politici, giornalisti quel tanto che basta, “esperti”, possibilmente titolati, per ogni necessità, sondaggisti pronti alla bisogna.
Da Roma, la Capitale, punto primo di riferimento nelle elezioni amministrative possiamo, se vogliamo, trarre alcune informazioni degne di attenzione.
Dopo lo scrutinio la stampa si è accorta della presenza della lista Azione guidata da Carlo Calenda e dovendo, bon gré mal gré, ammettere che questa lista ha ricevuto il maggior numero di suffragi dimentica, pour cause, che il PD ha perso la metà dei suffragi conquistati nel 2019 (ultime elezioni, quelle europee per intendersi, quanto di più lontano dai legittimi, concreti, visibili interessi quotidiani degli elettori, dei cittadini – io a differenza del professor De Rosa e di tanti non riesco a definire i cittadini, gli uomini che formano un popolo: “gente”).
Nel 2019 il PD raccolse 340.000 voti, nelle elezioni appena concluse 166.000. Alla faccia della vittoria che rende così divertente la prosopopea degli onorevoli Letta e Gualtieri, che in nome di una presunzione “etnica” (rappresentanti unici del bene) dichiarano l’uno che si può procedere subito ad un “nuovo Ulivo”, magari cercando di far dimenticare la breve vita del “Patto” stretto con Giuseppe Conte per ricostruire assieme all’avvocato del popolo un bipolarismo spartitorio di incarichi istituzionali. Oggi Conte è diventato scomodo e non credo educato dare consigli giuridici ad un così importante cultore del diritto che ben conosce lo speciale lasciapassare (parole s’intende) della Associazione Nazionale Magistrati al segretario senza Congresso (oggi e nel futuro) del PD che si è permesso di “condannare” pubblicamente una sentenza nei confronti dell’ex sindaco di Riace, peraltro anche bocciato nelle urne regionali calabresi. Caso unico: la ANM ha taciuto! Quando Letta parla anche i magistrati possono essere non tutelati.
Ma Conte è uomo avveduto e si limiterà ad attaccare “l’arroganza” di Calenda che lo vuole escluso assieme ai 5 Stelle dal governo romano. Bontà sua, invece, Gualtieri, pensa al sodo e messe da parte le acide parole consumate durante la campagna elettorale ha dichiarato che non imbarcherà nella sua possibile giunta i pentastellati. Per Gualtieri Roma val bene una messa e sa che al di fuori delle apparenze al ballottaggio è giunto grazie esclusivamente a liste di appoggio che – come per Michetti – rappresentano interessi vivi e non “identità” delle quali si sono perse le tracce (chiedere ai candidati del PSI che su più di un milione di votanti non hanno raccolto tremila voti- che comunque hanno anche loro significativamente aiutato la debole lista del PD).
Resta da chiedersi se, tolta la forma, Gualtieri riuscirà a governare riforme essenziali che stridono con gli interessi corporativi che lo hanno votato. Il futuro ce lo dirà.
Il voto per Michetti imposto a recalcitranti alleati dalla onorevole Meloni (“l’ho designato perché voglio al Campidoglio uno che mi risponde al telefono”), frase da grande costituzionalista che fa il paio con l’altra: “dopo il voto e la elezione del Capo dello Stato subito le elezioni”, dimostra la statura che la stessa, intelligente, leader di Fratelli d’Italia attribuisce all’avvocato candidato sindaco senza programma e che vorrebbe attribuire al prossimo Presidente della Repubblica. Ogni commento è superfluo.
Come la mettiamo allora con l’astensione, con la valutazione del non voto quando assume queste proporzioni? La politologa Urbinati ha brillantemente scritto sul quotidiano Domani: “l’astensionismo passa al primo turno” ricordando con il professor Lanchester le motivazioni che muovono ad una tanto grave decisione.
Eppure, Urbinati lo sa bene, non basta rifarsi ai motivi classicamente addotti ed in parte evocati in questi giorni da De Rita: indifferenza, negligenza, protesta, emozionalità della “gente”.
Se il cittadino ha amaramente scoperto che il suo voto non conta, giacché la sua opinione è inutile dinnanzi al monopolio assoluto che gli “interessi” impongono con tutti i sistemi informativi e con i sondaggi forniti a richiesta dei mandatari (e non soltanto in Italia, il caso austriaco è di scuola), perché la preminenza della parola sul voto non deve provocare disaffezione alle urne? Perché, grazie all’eterna scusa del risparmio e del guadagno sui tempi operativi, il Parlamento ed in genere le assemblee elette che hanno perso dal referendum Segni in poi, poteri e consistenza numerica, a favore del partito non eletto, sena nome ed al potere che Massimo Cacciari definisce come metodo il “governismo”, dovrebbe essere ratificato dal voto?
Come rianimare la passione civica non immiserendo le identità culturali con partiti ed associazioni (liste per x o y) che non consentono discussione, partecipazione, scelte ragionate e non plebiscitarie, spesso travisate in improbabili primarie convocate secondo convenienza?
Non è vero che queste elezioni siano state vittoriose per il PD e per FdI, lo dimostrano i numeri degli elettori per esempio a Roma, ma anche sostanzialmente in Italia.
Occorre porsi la questione se le tante, tantissime, ed alla fine piccole realtà rappresentanti di identità ed interessi potranno ritrovare dignità partecipativa nella democrazia rappresentativa in un nuovo quadro costituzionale.
Beniamino Finocchiaro, un intellettuale allievo di Gaetano Salvemini- che mi permise di apprendere qualcosa da lui nel corso di non pochi anni dello scorso secolo- esaltava, come il suo maestro, la “malinconica pazzia” strumento di visione della realtà, sovente difficile, accompagnata dalla passione per cammbiamenti che forse non si concretizzeranno. Spesso pensando alla malinconica pazzia mi sovviene il Totò pasoliniano di Uccellacci e uccellini e la malinconica pazzia continua a darmi vitale energia. Il ricordo dell’acuta osservazione di Pietro Nenni dei fatti, del loro intrinseco valore, e, nonostante tutto, della fiducia nella saggezza non improvvisata del popolo (chi può dimenticare l’amara frase di Nenni: “piazze piene, urne vuote”?) conforta chi crede nell’intuito spesso non espresso del popolo.
Guardo con tristezza agli annunci trionfanti dell’onorevole Letta sul prossimo, anzi immediato, nuovo Ulivo. Non so se la sua proposta farà la fine del precedente Patto stretto con Conte; credo però che chi ha scelto l’astensionismo come richiesta di libertà e di democrazia non intenda sostenere il proprio suicidio in nome di primati inesistenti, di presunzioni certe, di capacità manipolative del consenso grazie a leggi elettorali non rappresentative.
Ho vivida nella memoria le accuse a Calenda di essere rappresentante della destra confindustriale; esponente di un radicalismo liberal chic incarnato nei quartieri alto borghesi della Capitale (per inciso ha ottenuto la stessa media di voti sia nelle diverse periferie romane che nel centro della città a differenza del PD che è stato severamente punito in quasi tutti i municipi al di fuori del centro storico); in alcuni casi fascista in altri peronista coperto dalla foglia di fico del tecnicismo. Noto che in queste ultime ore alcuni “sconfitti” si affannano a cantarne le virtù in nome dell’antifascismo sempre militante o di possibili, e chi lo sa? futuri incarichi. Niente di nuovo sotto il sole.
Ricordo anche l’idea più volte pubblicamente espressa da Calenda di voler contribuire alla creazione di un rassemblement capace, come lo fu il liberalsocialista Mitterrand nel 1971, di sostanziare (nelle forme possibili all’epoca, cioè un partito) un grande recipiente propositivo di contenuti e di elaborazioni provenienti da diverse identità culturali e storiche.
Ha una occasione storica Calenda, da non sprecare, pensando oltre che “al suo voto individuale” (espressione un pochino debole) a quel mondo democratico, progressista, socialista, liberal che teme la “dog whistle politics”- la politica del fischietto per cani- che non pochi socialisti si sono accorti a proprie spese di aver subito all’interno del trionfante Ulivo di Veltroni, Prodi e Parisi e che non hanno alcuna intenzione di proseguire, in nome di “vicinanze culturali” e, quando ce ne è bisogno per dimostrazione di antifascismo militante.
Se non ce n’è bisogno chiedere informazioni all’onorevole Boccia per gli appoggi e gli accordi persino con CasaPound.