Esistono diverse faglie che attraversano le società contemporanee e i loro sistemi di funzionamento, sia in termini di strutture economiche sia in termini di istituzioni politiche. A queste diverse linee di rottura si accompagnano scelte e priorità che gli schieramenti politici scelgono per ridefinire la loro natura e, quindi, la loro proposta politica.
La risposta della ricostruzione di confini decisionali, ad esempio, che aderirebbero alla necessità di partecipazione e decisione democratica, come se all’interno di confini nazionali non esistessero le vecchie forme decisionali e di potere delle classi dominanti nazionali e specifici rapporti di produzione, risulta non solo una risposta regressiva e che guarda, tendenzialmente, alle forme delle società pre-industriali come modelli sociali, ma affida all’egoismo e alla potenza degli individui “nati in uno specifico territorio” il diritto dell’uso della loro forza accumulata (numerica, sociale, economica e… militare) necessario a garantire il livello di vita promesso dalle classi dominanti ai loro “sudditi” (considerabili tali perché impossibilitati a porre il tema del “potere”). Una risposta non solo regressiva, nei confronti di un mondo che ormai ha nella interconnessione dei destini, delle aspirazioni, delle consapevolezze una crescente cognizione del proprio destino, ma anche incapace di offrire risposte ai processi globali che accomunano non solo l’umanità ma la stessa sfera del vivente sul pianeta.
Esiste, poi, una risposta politica che sembra ignorare le dinamiche di fondo che emergono dalle nuove e vecchie contraddizioni che attraversano le società umane. Una risposta che si illude che la crisi che stiamo attraversando sia una crisi congiunturale, ove sia possibile, con qualche variante della forma della spesa pubblica e/o di nuovo indebitamento, riprendere il percorso di vita che precedeva il 2008. È lo schema che poggia tutte le soluzioni sulla capacità decisionale del “governo”, che allude “all’uomo solo al comando”, che vede la crisi nella sua variante della incapacità del sistema di attuare le “riforme” necessarie a farlo funzionare, non a cambiarlo.
Per stare all’oggi del dibattito politico, la rottura negli assetti del confronto parlamentare e della formazione di una maggioranza che ha portato alla nascita del Conte-bis, potremmo dire che lo schema del renzismo risulti vincente. Lo schema veltroniano che aveva portato alla nascita del Partito Democratico, infatti, risultava ormai logoro. L’incontro e l’accordo tra le componenti democratiche dei partiti popolari, che avevano caratterizzato la storia politica dell’Italia del secondo dopoguerra (le comuniste, le socialiste e le cattoliche), rappresentò l’ultima e ormai logora proposta all’interno dello schema togliattiano che guardava più al come avremmo potuto essere (e non fummo) che a quello che potremmo essere e non saremo. Era uno schema di “salvaguardia” in un mondo diviso dalla guerra fredda e congelato nei propri esiti democratici. Era uno schema che consentiva di porre questioni “di classe” senza porre “La” questione di classe: quella del “potere”.
La proposta di creare il PD arrivava proprio nel momento in cui la forma e la natura delle democrazie liberali nazionali mostrava la corda di fronte alla allora imminente crisi strutturale del 2008. La proposta renziana, già al convegno di Salsomaggiore dello scorso anno, affermava chiaramente che il modello del Partito Democratico era finito e che la sua idea di partito politico era racchiusa in tre condizioni: una leadership indiscussa, la capacità di dettare l’agenda dei temi e la potenza della comunicazione diretta.
Personalmente credo che la crisi della democrazia sia caratterizzata da almeno tre elementi: la crisi della delega, la crisi della struttura della democrazia liberale, la crisi delle strutture decisionali territoriali di fronte alle dinamiche ormai planetarie. Non prenderne atto, rivendicare un ritorno al passato, mettere la testa sotto la sabbia non ci consentirà di offrire una risposta politica adatta al tornante storico. Esiste una prima linea di rottura che attiene alla forma e alla natura della rappresentanza politica delle e nelle democrazie nazionali. La forma della delega, dopo la rottura rappresentata dalle “tecnologie social”, non potrà più essere ricondotta alla struttura pre-esistente. La “necessità” individuale e sociale di avere la capacità di espressione diretta nelle decisioni non può essere più ignorata anche se le soluzioni sperimentate fino ad ora risultano ancora incapaci di offrire una risposta adeguata.
La forma liberale della tripartizione dei poteri nelle istituzioni democratiche, inoltre, ha lasciato il vero motore della forma del potere al di fuori dei cancelli della partecipazione democratica. La generazione e la circolazione della moneta, infatti, è stata volutamente estromessa dai poteri di partecipazione decisionale e affidata alle tecnocrazie finanziarie e bancarie. Il ruolo della moneta nelle nostre società non solo non può essere delegato ad una parte (la più ricca e garantita), ma sta direttamente in una fase di contesa tra le vecchie forme finanziarie pre-digitali e quelle abilitate dalle tecnologie della blockchain e le criptovalute. Questo secolo sarà il periodo nel quale emergeranno una o più forme di moneta che cambieranno la natura delle nostre società e gli equilibri geopolitici a cui siamo abituati. Continuare con un dibattito del tutto “quantitativo” ci farà deragliare dalle vere dinamiche che stanno attraversando le società contemporanee. Su questo punto, personalmente insisto sulla necessità che le classi subalterne si dotino di una criptovaluta sociale che sappia garantire lo scambio del valore d’uso diretto che il fare umano sta sempre più generando soprattutto con la potenza del digitale, rompendo lo schema capitalistico del valore di scambio e della vecchia finanza.
Ma queste linee di rottura che emergono in questa Transizione da una formazione economico-sociale ad un’altra sono inscritte all’interno di una grande faglia dalla quale nessuna soluzione di modello economico-sociale, nessuna scelta di priorità, nessuna coerenza tra il dire e il fare potrà sfuggire: l’inizio di una crisi strutturale degli equilibri ambientali. Esiste una priorità delle priorità, una “coerenza ri-organizzatrice” delle scelte individuali e collettive alla quale nessuno può più sfuggire: attuare le scelte che salvano il pianeta che sta “bruciando”. Se pensiamo alla Terra come ad una astronave che viaggia nello spazio non possiamo non essere allarmati da ciò che accade in un “ponte” dell’astronave, ignorarlo perché accade in un “altro luogo” da quello che consideriamo “nostro”.
Non possiamo ignorare che biodiversità, temperatura, disboscamento, scarsità di acqua, desertificazioni, inquinamento, plastiche, OGM, diserbanti, ecc.. hanno innescato un processo di distruzione che se, non fermato immediatamente, porterà non alla fine della vita sul pianeta, ma alla fine della civiltà umana che abbiamo conosciuto.