Quando, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, venne aperta e legittimata la caccia ai socialisti una acutissima compagna di Mamoiada mi fece osservare che il problema non era che ci venisse sottratto l’onore (cui molto tenevamo) ma la stessa onorabilità.
E, in effetti, l’onore è qualcosa che si può momentaneamente perdere ma che può essere successivamente recuperato, sia pure magari con qualche cicatrice.
Una decisione sbagliata o ingiusta può sempre essere corretta e si può tornare sulla giusta strada. Ciò vale per i singoli ma soprattutto per le strutture associate che nel corso del tempo vedono succedersi diversi gruppi dirigenti.
Ancora: in un partito l’eventuale disonore dell’uno non va a ricadere direttamente su tutti gli altri, che se ne possono sempre differenziare e discostare.
Ma, se ti viene negata l’onorabilità, tutto cambia profondamente.
In primo luogo qualunque cosa si faccia “per recuperare l’onore” viene interpretata ed agisce in senso opposto.
In quegli anni, prima che la Storia e la cronaca si dimenticassero di loro, i socialisti italiani sapevano, per diretta esperienza, che avrebbero anche potuto andare a dare il sangue all’AVIS: si sarebbe sostenuto ( e sarebbe stato creduto) che era un piano per infettare tutti gli italiani …
Inoltre, l’attacco alla onorabilità in quanto tale comportava anche la estensione della condanna al passato, sia pure lontano e ricco di valore ed onori.
Nella scorsa legislatura venne avanzata, da un deputato grillino, la proposta di cancellare la dizione “socialista” dal busto di Giacomo Matteotti che sarebbe così rimasto semplicemente “martire antifascista”.
Ciò sarebbe stato fatto, naturalmente, per proteggere il povero Matteotti dal “disonore” di essere stato sempre e sino alla fine un socialista.
Verrebbe voglia di ricordare che contro gli stupidi neanche gli dei possono nulla e finirla qui.
Solo che non finisce qui.
Nella realtà del divenire (e una volta liquidati i socialisti) questa perversa logica ha iniziato a devastare anche i terreni di chi l’aveva introdotta nella battaglia politica.
Il punto è la trasformazione dell’avversario politico in qualcos’altro.
Esso smette di essere un protagonista, alla pari con tutti gli altri, di uno scontro democratico in cui legittimamente si perde o si vince per diventare il portatore di un disvalore totale.
Di tale disvalore esso diventa anche la rappresentazione. È possibile, di conseguenza, offenderlo e bullizzarlo senza rimorsi: non si sta, si pensa, offendendo qualcuno ma si sta combattendo il male nella sua identificazione fisica attuale oppure storica.
Quando un attor comico chiama Berlusconi “lo psiconano”, nessuno invoca correttezza di linguaggio e rispetto delle eventuali inferiorità fisiche.
Il comico pensa di essere sceso dal palcoscenico e di stare combattendo una battaglia di idee e di contenuti. Lo pensa, o lo finge.
Sulla scia di questo degrado, iniziato lo ricordo ancora con la gloriosa Tangentopoli, si sono andati a collocare felicemente in tanti.
Deputati e senatori diventano “personaggetti” dei contenitori televisivi che li chiamano, e spesso li pagano, purché garantiscano una certa quota di insulti e, di conseguenza, di audience.
Al centro, sempre la riduzione dell’avversario alla facile definizione denigratoria, al sorrisetto compiacente come alle urla indignate.
Ma il mondo reale ha una esistenza sua propria e così può capitare di doversi strettamente alleare con coloro che il giorno prima erano stati demonizzati.
Così i “demoni di Bibbiano” di ieri possono diventare, senza apparenti problemi, il migliore alleato dell’oggi.
Ma davvero senza problemi?
Nella società, come nella Storia, nulla va perduto.
Il seme gettato con il giudizio rozzo ed ingeneroso continua a produrre anche quando il furbastro che lo ha inizialmente utilizzato decide di tentar di prescinderne.
Esso rimane nella coscienza collettiva, continuando a indebolire la fiducia collettiva e la credibilità delle Istituzioni.
In questi giorni un giornalista ha definito il Presidente del Consiglio “figlio di papà” e, finalmente, un coro di proteste gli si è levato contro.
Ma egli è comunque soddisfatto. Quella rozzezza incongrua, una volta finite le critiche, resterà e, fra qualche mese, qualcuno potrà pensare a Draghi come un privilegiato sociale e, di conseguenza difensore dei privilegi sociali.
A quel punto non si porrà più la necessità di confermare o smentire la definizione, ma saranno gli stessi atti del leader a far ritenere che egli sia, in fondo, un figlio di papà. Aveva ragione, insomma, la compagna mamoiadina. Ma quel che neanche lei poteva prevedere è che la malattia inoculata in quei mesi drammatici avrebbe dato origine alla più stabile pandemia italiana.