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sabato 20 Aprile 2024
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Parlando di politica con Marco Follini

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Ho conosciuto Marco Follini alla fine degli anni ’80 a Viale Mazzini. Democristiano fin da ragazzo era stato Segretario dei giovani di quel partito prima di sedere nel consiglio di amministrazione della RAI. Deputato nel 1996 succede a Pierfrancesco Casini come Segretario del Centro Cristiano Democratico e poi Segretario dell’Unione dei Democratici Cristiani (UDC), il partito che nasce dalla fusion di CCD, CDU e DE. E’ Vicepresidente del Consiglio dei ministri del governo Berlusconi nel 2004, ma l’anno dopo rassegna le dimissioni per dissensi con il premier. Eletto senatore nel 2006 fonda nello stesso anno il movimento politico “L’Italia di mezzo” che l’anno successivo confluisce nel Partito democratico. Viene rieletto senatore alle elezioni politiche del 2008, ma nel giugno 2013 abbandona il PD. Dal giugno 2014 è presidente dell’Associazione Produttori Televisivi (APT).

Il sostegno dell’Europa si realizzerà alla condizione che si realizzino alcune riforme di particolare rilievo e complessità come quella della giustizia e della pubblica amministrazione. A quale cultura si dovrebbe ispirare una politica riformista per risolvere i problemi del paese?

Le riforme di cui si sta parlando sono quelle destinate ad avvicinarci agli altri paesi europei, superando alcune delle anomalie che hanno frenato e/o deviato il cammino del nostro paese. Il traguardo, dunque, è europeo, è lì l’approdo. Naturalmente l’Europa non è solo un prato fiorito, né un modello che non richieda a sua volta molti aggiustamenti e ripensamenti. Ma è per noi, da sempre, l’occasione per migliorare alcuni tratti della nostra personalità civile -chiamiamola così.

Non voglio e non posso entrare troppo nello specifico. Ma è evidente che noi abbiamo sulle spalle il peso di troppa burocrazia e di una pubblica amministrazione troppo lenta e oscura. Difetti e opacità con cui si sono scontrati vanamente governi dei più diversi colori politici e che oggi richiedono un’azione di riforma meno spettacolare ma più incisiva di quelle tentate fin qui.

Ma è soprattutto nel campo della giustizia, e in particolare della giustizia civile, che si dovrà operare in modo ancora più incisivo. Anche qui si pone innanzitutto un problema di tempi. I ritardi di questo comparto hanno infatti un costo anche economico che sta diventando insopportabile e che costituisce un grande freno all’investimento.

C’è infine, ma non da ultimo, il tema dell’intreccio perverso tra contesa politica e vicende giudiziarie. E’ una questione gigantesca, che mina alle basi la fiducia della pubblica opinione e finisce col seminare veleni per ogni dove. E’ chiaro che non sono gli interventi di dettaglio, e tantomeno le leggi ad personam, che risolvono la questione. Ma si tratta, appunto, di una questione cruciale a cui le nuove classi dirigenti non potranno dirsi estranee. Né innocenti, se si continuerà a non far niente.

La formazione del governo Draghi nasce dalla incapacità dei partiti e dei movimenti di costruire soluzioni politiche alla crisi che loro stessi hanno determinato con maggioranze parlamentari senza una comune base politica e/o programmatica. Quali cambiamenti si possono prevedere nel prossimo futuro della politica italiana, a valle del governo Draghi e dopo la fine della pandemia quale sarà lo scenario che avremo di fronte?

Saranno i partiti, alla fine, a decidere di se stessi e del dopo Draghi. Ma intanto c’è da attraversare questo guado e molte cose dipendono da come lo si attraverserà.

Io penso che i partiti abbiano oggi due strade davanti a sé. Una è quella di dedicarsi al presente. L’altra è quella di pensare il futuro. L’uovo oggi o la gallina domani, diciamo così. Se si ragiona sul presente, è ovvio che i partiti cercheranno di tirare ognuno il proprio tratto di corda, massimizzando le ragioni di conflitto e illudendosi di poter fare la differenza a proprio vantaggio. Sembra una strada fin troppo battuta e frequentata. Ma in realtà è un vicolo cieco. Infatti, se il governo diventa il campo di battaglia delle opposte parzialità non si va lontano. Non fosse altro perché tutte quelle parzialità sono state smentite e minimizzate dalla pessima prova che i partiti hanno offerto di sé.

Se invece si ragiona sul futuro, secondo me si può perfino trarre un vantaggio dalle difficoltà che stiamo attraversando. Io credo che i partiti debbano cogliere l’occasione della loro attuale marginalità per ripensare se stessi. Per darsi identità e strategie che non hanno più. Per andare alla ricerca di consensi e legami (legami, soprattutto) che hanno smarrito.

Una volta i partiti erano delle città. Con palazzi imponenti ma non inespugnabili, case di periferia e strade di connessione tra tutti i suoi edifici. Ora i partiti sono alberghi. Luoghi dove si prenota, si vive provvisoriamente, non si vede l’ora di uscire. Soprattutto, dove ci si sente ospiti. Ecco, abbattere gli alberghi e ritrovare le città sarebbe già una buona idea per il dopo Draghi.

Il Presidente della Repubblica che sarà eletto il prossimo anno come affronterà, dopo le elezioni, il problema di un parlamento che avrà i due terzi dei membri attuale e quindi con maggioranze politiche numericamente diverse e imprevedibili?

Non a caso i padri costituenti pensarono bene di differenziare la durata dei due mandati -quello parlamentare e quello presidenziale- in modo da non far coincidere il settennato del Quirinale con il quinquennio (almeno teorico) di Camera e Senato. Per il passato fu una buona regola, che ci ha evitato alcuni equivoci.

Ora però è evidente che un equivoco del tutto nuovo si staglia all’orizzonte. Perché questa legislatura eleggerà infine un capo dello Stato con una base elettorale che di lì a un anno, forse meno, si restringerà piuttosto nettamente. Ed è quasi ovvio che i 600 nuovi parlamentari, proprio in ragione di questa differenza, avranno la tentazione di considerare il presidente eletto dai loro 945 colleghi di prima come una figura d’altri tempi o quasi.

E’ uno degli equivoci che discendono da una riforma fatta male, sull’onda della demagogia e fondata sull’idea che ridurre la rappresentanza (il numero dei parlamentari) faccia parte di una virtuosa concezione della democrazia. Si tratta di un errore. Non si può pensare che il metro di misura della virtù democratica sia la quantità, e non già la qualità, dei ruoli politici che vengono ricoperti.

Naturalmente si può sempre sperare che i deputati e senatori che saranno eletti la prossima volta smentiscano con la loro saggezza le previsioni troppo preoccupate del giorno prima. E si può contare sulla “grazia di Stato” che spesso contagia chi ha il privilegio di salire sul Colle.

Uno sguardo al recente passato: come sorse l’idea di fondare non uno ma due partiti cattolici, Il Centro Cristiano Democratico e l’Unione Democratico Cristiana, che avrebbero dovuto raccogliere l’eredità della DC dopo il fallimento del Partito Popolare di Martinazzoli?

Dalla radice democristiana sorsero in realtà (1994) due partiti: il Ppi e il Ccd. Due soli, e forse anche troppi. Poi ne nacquero altri dalla scissione del Ppi. I popolari attestati sulla frontiera di centrosinistra e il Cdu in viaggio verso il centrodestra. Di lì a poco nacque Democrazia europea che si attestò al centro. Infine l’Udc che fu un tentativo di unificare Ccd, Cdu e De. Insomma, un gran guazzabuglio, che forse merita un’attenzione non troppo solenne.

La sostanza mi pare questa. Una volta che il grosso dell’elettorato democristiano era andato a ingrossare le fila della Lega prima, e soprattutto di Forza Italia dopo, si cercava di mantenere un’identità politica che richiamasse la tradizione che avevamo alle spalle -sia pure nelle mutate circostanze. Dunque la questione che si stagliava dietro tutto questo pulviscolo di sigle e di operazioni politiche era quella del peso e del valore delle identità di prima. Quanto aveva ancora un senso dichiararsi democristiani (o socialisti, o comunisti, o altro) e quanto invece ci si doveva lasciare alle spalle tutto questo per affidarsi ai nuovi contenitori politici che andavano prendendo forma.

Al netto degli alti e bassi dei partiti(ni) e degli andirivieni di ciascuno di noi, a me pare una questione ancora attualissima. Perché i caratteri di prima si sono in gran parte dissolti, è vero. Ma i nuovi caratteri restano indefiniti e largamente insoddisfacenti. E dunque, quanto c’è di antico e quanto di inedito nella nostra contesa politica resta a tutt’oggi un mistero che prima o oi andrà chiarito.

Temo che nessuna delle risposte che abbiamo cercato di dare -né quella della conservazione delle tradizioni, né quella dell’esplorazione della novità- abbia risolto il problema di fondo della nostra democrazia. Che è soprattutto un problema di rappresentanza.

Quale effetto produsse l’entrata in campo di Silvio Berlusconi con il movimento di Forza Italia che andava ad occupare l’area di centro che era la stessa dei due partiti cattolici?

E’ difficile dare un giudizio su Berlusconi e sul berlusconismo “sine ira ac studio”. Prescindendo cioè dalle passioni, positive e negative, che ognuno di noi ha legato al personaggio e alla sua epoca.

Personalmente penso che in quella vicenda prevalga il segno meno. Certo, Berlusconi è stato demonizzato, il più delle volte ingiustamente. Certo, ha avuto il merito di offrire casa, e cioè una rappresentanza politica, a un elettorato di centro, figlio del pentapartito di una volta, che rischiava di non averne. Certo, l’alternativa della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto era molto peggio. Certo, infine, occorre riconoscere che il Cav è una figura umana complessa in cui la generosità prevale quasi sempre sulla grettezza -e anche questo è un fattore di cui è giusto tenere politicamente conto.

E però, tra luci e ombre che è sempre giusto considerare, io personalmente fatico a dare un giudizio positivo su quella esperienza. Perché proprio alla luce dei meriti che Berlusconi può rivendicare viene da dire che si è trattato di un’occasione mancata. Quando nel ’94 e poi di nuovo nel ’96 il Cav, come lo chiama Ferrara, viene plebiscitato ha davanti a sé per davvero la possibilità di spingere la politica verso una nuova stagione. Può aprire una fase costituente, può spingere sul pedale delle riforme, può dar voce a un paese più largo del suo stesso elettorato. E invece finisce quasi subito per trincerarsi dietro il confine delle sue più immediate convenienze. Agita l’anticomunismo, quando il comunismo ormai non c’è più. Dedica al leghismo di Bossi un’attenzione e una considerazione fuor di misura. Non accenna a risolvere il conflitto di interessi, anzi. E soprattutto continua a pensare che il discorso pubblico debba essere infarcito di tutte quelle forme di demagogia, semplicismo e faciloneria che saranno una delle forme di incubazione del populismo che esploderà di lì a poco. Direi quasi che c’è in Berlusconi una compiaciuta anticipazione dell’antipolitica, anche se sarebbe ingeneroso iscriverlo a pieno titolo a quella scuola.

Diciamo appunto che si è trattato di un’occasione mancata. E che la cosa è tanto più grave, almeno secondo me, se si considera che Berlusconi, proprio in virtù del suo credito personale, del favore popolare di cui ha lungamente goduto, del suo stesso carisma, poteva essere l’uomo capace di fare la differenza tra la rigenerazione della politica e la sua trasformazione in “teatrino”. Come a lui piaceva dire, senza rendersi conto che proprio con quel racconto offriva argomenti che un giorno sarebbero stati usati anche contro di lui.

Tant’è che il Berlusconi di oggi, saggio e pensoso, sembra quasi la nemesi che si agita contro il Berlusconi rampante di qualche anno fa.

Quale fu la causa del fallimento del tentativo di Occhetto di traghettare il PCI verso il centro?

Ho idea che Occhetto non si sia mai posto il problema del “centro”. Il suo orizzonte era la sinistra, e lì è rimasto. A suo modo coerentemente. Se no, nel ’93/’94 avrebbe scommesso su Ciampi che aveva molti più argomenti per farsi apprezzare da tutta quella fascia di elettorato che faticava a seguire il percorso del segretario del Pci appena mutato di nome.

Ma il problema secondo me risale molto più indietro. Occhetto viene stretto e messo all’angolo da una gran quantità di nodi che erano stati intrecciati e mai sciolti dai suoi predecessori. In primo luogo da Berlinguer, che pure è figura mitica di quella lunga storia. Come tutti, anch’io ho riguardo per la sua vita e per la sua morte che insieme formano una leggenda e alimentano una suggestione ancora viva nel cuore di tantissime persone. Ma, una volta detto questo, resta il fatto che proprio Berlinguer commette l’errore fatale che ha reso poi tanto difficoltosa l’evoluzione di quella parte della sinistra che prese forma a Livorno giusto cento anni fa. Quando viene meno il mito dell’Urss, la leadership comunista di allora pensa bene di fabbricare un altro mito che potesse compensare l’ammainarsi della bandiera del sovietismo. E fu la “diversità” come ben sappiamo. I comunisti raccontarono a se stessi e al paese di essere gente fatta di una pasta diversa: più onesti, più virtuosi, più limpidi dei loro avversari. Così si introduceva un sottile veleno nella nostra disputa pubblica. E la barricata moralistica finiva col prendere il posto delle barricate geostrategiche costruite negli anni della guerra fredda che ora -finalmente- venivano rimosse.

Fu un errore, per loro e per il paese. Peraltro un errore fondato su dati di fatto che in larga misura sarebbero stati smentiti. Ma è ovvio che se il presupposto della lotta politica è che una parte detiene le chiavi dell’onestà, ne discende che l’altra parte finisce confinata in una sorta di maleodorante girone infernale. Che poi dalla parte opposta ci fossero molti errori e qualche disonestà nulla toglie. Ancora oggi credo che l’onda populista che sembra sempre sul punto di sommergerci, o quasi, debba qualcosa delle sue fortune a quel discrimine morale tracciato lungo il passaggio che conduceva dagli anni settanta agli ottanta. Un discrimine che arriva fino a noi, del tutto a sproposito.

E’ stata la crisi dei partiti dopo tangentopoli a far nascere i movimenti da Forza Italia alla Lega fino ai 5 Stelle o i movimenti hanno rappresentato il superamento dei partiti politici come li abbiamo conosciuti nella seconda metà del secolo scorso?

Bella domanda. E’ nato prima l’uovo o prima la gallina ? Direi che le due cose si tengono.

Io penso che all’origine c’è la crisi dei partiti. Nella nostra tradizione, se vogliamo un po’ impropriamente, i partiti erano lo Stato. I puristi delle istituzioni lamentavano la cosa, anche giustamente. Il fatto è che quando poi abbiamo smantellato i partiti, con la crisi della prima repubblica, non abbiamo trovato lo Stato. Tutt’altro. Le persone sono state più sole, la politica è stata più vuota, le istituzioni sono state più lontane. E quei simulacri di partiti nuovi che hanno preso forma di lì in poi non hanno affatto risolto il problema. Tant’è che ora debbono affidarsi al talento di Draghi per rimediare alla crisi di sistema di cui sono, a un tempo, la causa e l’effetto.

Vorrei tornare alla metafora dei partiti come città e come alberghi. E’ evidente che la città è il luogo di tutti, contiene un’infinità di possibili esiti e traguardi, prevede passaggi continui da una strada all’altra, da una casa all’altra. La città è ampia, è condivisibile ed è contendibile. L’albergo invece è un luogo esclusivo. Si è ospiti e si è soggetti alle regole e alle consuetudini di chi ne è proprietario. Ha qualcosa di esclusivo, ma anche qualcosa di soffocante, di asfittico. Nessuna delle due metafore va presa alla lettera, ovviamente. E’ solo un modo di dire. Un esempio, tra tanti, di come si possa essere e ci si possa sentire padroni oppure ospiti, di come si possa vivere nell’ampiezza dell’orizzonte o nei confini più stretti di una sorta di immaginaria reclusione.

A questa rarefazione della partecipazione politica è poi subentrato l’insopportabile concerto della demagogia. Un racconto falso in virtù del quale la celebrazione dell’incompetenza, dell’inesperienza, dell’estraneità al gioco politico diventa quasi l’unico titolo di merito che può essere esibito a favore di un popolo anonimo e indistinto che diventa a sua volta la parodia della vita democratica.

Ora sembra che tutta questa retorica del dilettantismo stia passando di moda. Staremo a vedere. Ma io credo che se non si ripenseranno i partiti, se non ci si dedicherà a rimetterli a nuovo, se non si avrà la forza di ricostruirli, non si andrà lontano. Certo, è ovvio, la storia non torna mai indietro. Ma resta al fondo della storia, o almeno della nostra storia, un bisogno di legami che solo la politica pensata e almeno un po’ strutturata è in grado di fornire.

Il populismo non è un’invenzione dei nostri giorni. Fa parte di qualcosa che è nascosto nelle viscere del nostro paese. E per giunta ora tutto questo fa il paio con tendenze analoghe che hanno preso forma in quasi tutti gli altri contesti democratici. E’ ovvio per me ripetere che non è quella la strada giusta, e che a continuare a percorrerla si corrono seri pericoli. Ma per indicare un’altra strada ci vorranno molta fatica e un certo coraggio civile. Se non altro, quello di sfidare una moda e un pregiudizio.

Certo, sarà una strada lunga, quella della risalita. Per quanto lunga è stata quella sorta di discesa agli inferi che abbiamo percorso in tutti questi anni.  






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