giovedì 12 Dicembre 2024
Classici contemporaneiQuando ad emigrare eravamo noi

Quando ad emigrare eravamo noi

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I versi che seguono sono di Crescenzo De Vita, un Cilentano, emigrato in America Latina per garantire un futuro al proprio figlio che diventerà, grazie ai suoi sacrifici, un valido e stimato professionista.

PARTENZA E NOSTALGIA
Dopo la guerra quanti
tristi avvenimenti!
Emigraron tanti giovani
in lontani continenti.

Anch’io fui costretto
ad attraversare il mare,
sapendo i sacrifici
che dovevo affrontare .

Più di uno mi diceva
per farmi rattristare
che lasciare non dovevo
il proprio focolare .

Ma io non diedi ascolto,
seguii il corso mio
con la speranza in cuore
che mi aiutava Iddio.

Dopo l’attesa giunse
Il giorno paventato:
lasciai moglie e figli
con l’animo addolorato.

Quando mi allontanai
Dal paesello mio
Lo strazio nel mio cuore
Lo sa soltanto Iddio.

Mia madre lacrimava,
moglie e figli altrettanto,
anch’io non fui capace
di trattenere il pianto.

Dopo quindici giorni
Su di una nave in viaggio
Sbarcai alla Guaira:
bruttissimo villaggio.

Giunto a Caracas
In terra a me straniera,
come fu doloroso
per me la prima sera!

Per la città incontravo
Uomini bianchi e neri,
ed io non comprendevo
quegli accenti stranieri.

Quante e quante strade
Ho percorso in questi anni!
Per un posto di lavoro
Quanti e quanti affanni!

M’opprimeva la tristezza,
ma non mi sono scoraggiato
contento di aver l’oceano
per la famiglia attraversato.

D’ogni tempo a Caracas
Ci sono rose e gigli,
ma non hanno il profumo
dei miei lontani figli.

Solo per la famiglia
Nel cuore arde la fiamma:
riabbracciar, un dì felice,
mia moglie , figli e mamma.

Quando al sorger del sole
M’accarezza in fronte un raggio
Gli ripeto il mio messaggio,
di sospiri e di parole:

‘’Reca, o sole, un mio saluto
Ai miei cari, e non gli dire
Che mi costa il contributo
Per formargli l’avvenire.

(Crescenzo De Vita)

Verso la fine del 1800 l’emigrazione cilentana si sviluppò verso il Brasile e l’ Argentina, solo a cavallo del secolo la tendenza si invertì favorendo gli Stati Uniti e successivamente il Canada. La maggior parte si recava in Brasile (specialmente nella parte meridionale, a causa delle proibitive condizioni di vita della zona settentrionale del paese), altri in Uruguay (Montevideo) e solo un’esigua minoranza in Argentina. Il sud America, rispetto all’America del nord, attirava maggiormente quei Cilentani che sognavano la proprietà terriera in quanto offriva immensi territori da coltivare .

L’abolizione definitiva della schiavitù (1850-1888 ) nell’America del Sud favorì e incrementò l’emigrazione verso queste terre, caratterizzate dai latifondi e quindi bisognose di grandi masse di mano d’opera. All’arrivo gli emigranti venivano sistemati in grandi capannoni (fino a 10.000 persone per ogni capannone) dove le condizioni di vita erano facilmente immaginabili, qui avveniva la selezione tra quanti chiedevano in assegnazione lotti di terreno e quanti preferivano il lavoro di salariati nelle fazendas.

Il paese che accolse il maggior numero di emigranti italiani fu l’Argentina, che non solo fu un grande produttore di carne, prima conservata sotto sale e poi congelata ma, per le notevoli estensioni del territorio, un grande paese agricolo fortemente bisognoso di mano d’opera, anzi l’incremento che il paese ebbe in questo campo fu per la maggior parte merito degli emigranti. I Cilentani si diressero soprattutto verso Buenos Aires e contribuirono non poco a far uscire questo paese dall’arretratezza, fornendo non solo braccia, ma tutta una serie di servizi e se è vero che molti fecero fortuna, è pur vero che non ebbero vita facile.

L’emigrazione degli Italiani in America è raccontata attraverso le lettere dei Cilentani partiti per cercare fortuna nel Nuovo Mondo e ravvisabile anche nei versi proposti di Crescenzo De Vita . La nostalgia per i parenti, le condizioni disumane del viaggio e la difficile integrazione nei territori raggiunti, sono i temi che accomunano parecchie delle poesie di emigrazione.

La nostalgia, in particolare, è un problema interiore che consuma la persona: quella del paese d’origine, come entità fisica e spirituale; quella delle persone care e quella dei fatti che sono stati vissuti nel proprio paese ma che si vorrebbero rivivere nel luogo dove si è arrivati. E’ un sentimento che pervade l’animo umano e che spinge a proiettare lo sguardo in luoghi, in tempi diversi da quelli che si stanno vivendo, ripensando a persone lontane e al momento del “ritrovamento”.

“RITORNO”

Sono già passati, ahimé, circa sei anni Lontano dalla mamma, figli e sposa, a star lontano dalla propria casa un cuor affezionato mai riposa.

Pungente è assai la nostalgia di voi
Quando la sera mi ritiro affranto,
e sulla branda passo le nottate
col nodo in gola e con negli occhi il pianto.

Con l’aiuto di Dio ho deciso
Di ritornar da voi a primavera,
per riveder la mia casetta ancora
e abbracciar te , sposa sincera.

Ritornerò già coi capelli bianchi,
i bimbi conosceranno il loro papà,
che han visto sol sul comodino
in una foto di tant’anni fa.

(Crescenzo De Vita)

Al sentimento della nostalgia si affianca un sentimento primordiale che si potrebbe chiamare della “lontananza”.
Questo scatta quando manca qualcosa che si è lasciato in un altro spazio, quando si spera di ritornarvi e il ricordo prende quasi sembianze di mito in riferimenti ad affetti, luoghi, fatti.
Tale sentimento produce dolore, ansia, insicurezza, si trasforma in un canto d’amore per il paese d’origine come accade proprio al De Vita.
Esso diventa elemento di confronto costante tra l’esperienza vissuta da emigrante e la sua condizione esistenziale di figlio affezionato, marito devoto, padre affettuoso ed è proprio quest’ultimo ruolo e la profonda responsabilità che comporta ad essere avvertito con maggiore intensità. Di qui le raccomandazioni affinché ogni sacrificio non venga vanificato e possa consentire un cambiamento, un miglioramento per chi rappresenta il suo futuro: il figlio.
De Vita avverte, poi, nella sua condizione di emigrante un bisogno viscerale di ricollegarsi con la persona che simbolicamente rappresenta la terra d’origine, lo spazio embrionale: la Madre.
In tale figura egli recupera tutto il senso della sua vita e il legame con ciò che è a lui più caro e importante. I versi dedicati alle sue donne (madre e moglie) che attendono il suo ritorno sono di forte intensità , essi hanno un sapore delicato, di seta, quasi che quelle figure possano sgualcirsi o perdersi se troppo stropicciate. Essi non sono mai addensati da forti sentimenti ma sono modellati con pennellate intense anche se leggere e capaci di fissare gesti, sguardi e aspetti come in un quadro.
E’ l’atteggiamento tipico del Cilentano verso le donne più importanti della propria vita che manifesta il suo amore con dignitoso silenzio.
La figura della Madre, in genere, nella poesia cilentana assurge a simbolo di custode di forti legami e depositaria di alti valori che anche nella lontananza del ricordo sono sentiti come sentieri-guida e danno la forza di resistere alla difficile condizione di “esule”. E’ la speranza del ritorno, di riabbracciare quel volto e tutti gli altri affetti quando ritroverà la famiglia, le abitudini, i sapori ad alleggerire le pene della lontananza.
Qual è l’insegnamento, allora, che viene da questi canti?
Il dramma dell’esule è uguale sempre e per tutti. L’auspicio è che non si debba vivere l’esperienza di esule per comprenderlo, basta il canto di chi pur non volendo è stato costretto a partire, quell’esperienza può bastare, a quell’esperienza si può e si deve credere.

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