venerdì 27 Dicembre 2024
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Questi europei di calcio, la grande allusione

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Mi cimento – senza essere molto ferrato, quindi da vecchio blando tifoso – con il giornalismo sportivo, ma in realtà “allusivo”, di questa fase finale dei campionati europei di calcio, ravvedendo alcuni elementi che, appunto, alludono ad una sorta di geopolitica di questa Europa in cambiamento e di questo affondo collettivo verso una speranza di domare la crisi pandemica e ritrovare strade interrotte.

Intanto la concentrazione mediatica ma anche pubblica su questa Coppa UEFA 2021 resta intatta, non sgranata. Non solo in Italia. Si colgono volentieri notizie che alimentano quella domanda di uscita dalla crisi, altre volte finite più in subordine. Con parole che appartengono a questa “concentrazione”, che tendono a scrivere una sorta di umanesimo calcistico per raccontarci che non è vera la narrativa che vuol fare del calcio solo un business, che avevano torto i complottisti della Super League, che uno sport che prende ogni volta le mosse partenendo dagli inni nazionali ha ancora un suo perchè nei sentimenti collettivi. Eccetera, eccetera.

Facciamo finta di crederci. Anche perché se l’Italia arrivasse alla fine e anzi superasse la fine, questa retorica si farebbe legittima, prepotente, in qualche modo blindata rispetto a ogni critica.

Con la conclusione dei “quarti” escono di scena gli outsider, le squadre rivelazione. Le ultime sfide hanno messo in panchina svizzeri, cechi, belgi, ucraini. Sempre facendo intendere che non erano lì per caso, che il buon calcio resta diffuso, che alcuni talenti hanno posto anche in formazioni meno blasonate. Ma in ogni caso secondo le previsioni.

Non era parte delle previsioni invece l’emarginazione di Francia e Germania. E questa è un’altra allusione che non va forzata più che tanto, ma che ci consente di dire che il calcio collettivo (tra una squadra in campo e una società schierata al teleschermo) ha qualche sintonia immateriale, qualche spartito condiviso. E la Francia di Macron, punito dagli elettori che al tempo stesso puniscono anche la banalità di un incremento dell’estrema destra, resta con i suoi interrogativi e trasferisce in campo anche qualche supponenza non controllata. Così come la Germania resta sì al centro di tutto ma anche al centro del suo più arduo e imprevedibile congedo: quello dalla presidente–Mutti, la madre della Nazione, che a fronte di qualunque crisi ha sempre alzato la bandiera dello “Wir Shaffen Das”, cioè del “ce la possiamo fare”.  Due paesi che hanno retto l’architettura europea e che oggi, in verità, sono uniti da un punto di domanda.

La dialettica dell’Europa di questo preliminare dopo crisi appare caratterizzata dalla diversità e al tempo stesso dalla proposta distinta da una parte della Gran Bretagna dell’isolazionismo (vedovo di Trump) di Johnson e dall’altra parte dell’Italia “europeista e atlantica in senso rooseveltiano” di Mario Draghi.

Guarda caso le due squadre che i cronisti di calcio considerano favorite per misurarsi nella finale.

E in ogni caso, comunque vada a definirsi la finale, è la stessa fase delle semi-finali del 6 e 7 luglio a raccontarci un’altra non meno significativa metafora dell’Europa: quella del recupero di una centralità della relazione Nord-Sud, che appariva vittima dei suoi stereotipi e in preda ad una certa evanescenza a fronte del lungo consolidamento della relazione Est-Ovest. Qui, dai serrati match tra le piccole rappresentanze della gioventù pelotista dell’Europa contemporanea, la sfida che si delinea è Inghilterra o Danimarca da una parte, Spagna o Italia dall’altra. Riecco le cicale e le formiche di quella fase ormai tramontata dei primi scontri sul Recovery Fund (eravamo ai tempi del governo Conte), fase che è stata messa in un cantuccio nel momento in cui proprio l’Italia ha cominciato a profilare una sua credibilità europea che rendeva impensato perseverare il racconto dei virtuosi contrapposti agli spendaccioni.

I quattro gol inglesi all’Ucraina (sofferti dai milanisti, per via di Scheva) fanno scrivere ai giornali che “ora l’Inghilterra prenota il suo Europeo”, con dietro la storia della Brexit in cui per la maggioranza britannica l’Europa era trattata non come “cosa sua” ma come “cosa loro”. Anche questo significa qualcosa nel solco dei cambiamenti possibili.

E c’è ancora un’allusione che questi europei fanno emergere. Quella che ci ricorda che la questione migratoria torna sul tavolo ma resta lontana dalle soluzioni, mentre l’ibridazione nei campi di calcio tra bianchi e neri riguarda ormai tutti i paesi in competizione. Riguarda tutte le società che esprimono – di prima, seconda o terza generazione – figli adottivi. Riguarda tutte le tifoserie che dimenticano le salvinate e le orbanate quando a risolvere una partita decisiva è indifferentemente un ragazzo di pelle bianca o nera.

Ecco, per questi cenni qui raccolti frettolosamente, mi viene da dire che avere adottato, noi tutti europei, la vicenda calcistica come una cosa che ci riguarda, in questo momento storico, in questa delicata fase di transizione, non appartiene forse a un nuova grande illusione ma – non è solo un gioco di parole – anche a una grande allusione.

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