In Francia, alle regionali della scorsa primavera, ha votato il 33% degli elettori. La situazione in Germania, alle ultime politiche, vede il 77% dei votanti. Nel nostro paese alle politiche di tre anni fa, ci fu una partecipazione del 70%; il 55% di quel voto fu dato a tre formazioni populiste e antisistema, i 5S, la Lega di Salvini e FdI. Oggi rappresentano tra il 30 e il 40%.
I populisti hanno perso
I populisti hanno perso: sia quelli di destra (Lega e Fratelli d’Italia) sia quelli della protesta (i Cinque Stelle).
Il calo della partecipazione è dovuto, essenzialmente, alla trasformazione del voto di protesta in non voto, un passaggio che segnala un mutamento della psicologia collettiva. Si sono smorzate le indignazioni, le paure e, con esse, le pulsioni eversive, con la relativa carica di odio. A tutto danno delle formazioni di centro-destra che hanno continuato ad alimentarle, giocando quasi tutte le loro carte sul fallimento delle politiche dei governi.
Fino a quando è arrivato Mario Draghi e si sono ritrovati a sostenere il suo governo. Con una evidente contraddizione e crisi di credibilità. Ma l’astensione dal voto ha riguardato in particolare le periferie. Dove non ha attecchito la riscoperta del “partito di lotta e di governo” di berlingueriana memoria, che nella versione “made in Salvini” ha fallito.
Così per quanto riguarda i Cinque Stelle la discesa nelle piazze, oltre il raccordo anulare di Roma, di Giuseppe Conte ha dimostrato che il personaggio funziona sui social e nei sondaggi, ma nelle urne il suo effetto è negativo.
Lo riconosce persino Marco Travaglio: “i non votanti sono soprattutto ex elettori 5 stelle in attesa di un’offerta credibile, è un monito soprattutto per Conte”. I cittadini che hanno vissuto sulla propria pelle i disagi della amministrazione Raggi, non sono tornati a votarla per la semplice ragione che “se li conosci, non li voti”. Insomma hanno perso l’80% dei voti, per i Cinque Stelle è una sconfitta letale: sarà difficile che arrivino al 2023.
Ma il non voto della periferia romana è un fenomeno che affonda le sue radici in anni lontani e che investe responsabilità politiche di tutti i partiti che in tempi diversi, prima o seconda repubblica, hanno attuato politiche urbanistiche disastrose.
“Sostenere come fa adesso la sinistra che in posti dove sei italiani su dieci non votano abbia perso il populismo è in realtà una tesi avventurosa”, ha osservato Goffredo Buccini (Corriere della Sera 8 ottobre) che si domanda “si può stare sereni davanti a un distacco così plateale tra chi ha voce e chi no”.
E ancora: “per evitare che nuovi e più spregiudicati tribuni infiammino piazze in apparenza fin troppo chete, visione, empatia e presenza saranno moneta pregiata, si chiama capitale politico”.
Carlo Calenda è stato in linea con questo ragionare di Buccini e ha conquistato consensi ponendo al centro del suo programma l’intervento per una reale riqualificazione delle periferie, con l’obbiettivo di ridurre nei fatti diseguaglianze spesso legate all’habitat, proponendo una politica urbanistica che mettendo in discussione i metodi che hanno determinato la cementificazione delle periferie e aumentato a dismisura la disponibilità immobiliare che risulta invenduta, oltre ad ignorare una corretta gestione del patrimonio immobiliare pubblico.
In definitiva un programma che rompe quella “continuità urbanistica” che è stata il mantra sotteso di tutte le giunte, di sinistra, destra e populiste, che hanno governato il Campidoglio.
Nel campo avversario ha avuto un certo rilievo la campagna condotta da Giorgia Meloni che ha prodotto una comunicazione diversa da quella della Bestia di Salvini, diversa nei toni e nei contenuti, caratterizzata da severe e inappellabili critiche agli avversari politici, non concedendo nessuno spazio alla coalizione di centrodestra.
Ovviamente il bersaglio preferito è stato il Governo Draghi. Diversamente da Salvini la Meloni ha dedicato molto spazio ai candidati locali, ma a causa dell’inchiesta di Fanpage sulla “Lobby Nera” il sentiment nei suoi confronti è diventato negativo come rileva una ricerca di “Reputation Science” che si è concentrata sull’analisi dei messaggi pubblicati sui profili social della leader di Fratelli d’Italia.
La “personalità social” di Giorgia Meloni si è esercitata contro il suo bersaglio preferito con particolare riferimento alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: è lei a incassare il 30% degli attacchi, seguita da Roberto Speranza, con il 18% delle critiche.
È da notare che le idee programmatiche di Fratelli d’Italia valgono l’11% del totale: temi ricorrenti, la necessità di instaurare un blocco navale e le critiche al green pass.
Giornalisti intelligenti come Augusto Minzolini hanno osservato che con la pandemia è emersa nel corpo sociale una domanda di tutela e di protezione: ad accoglierla la formazione politica che più di altri si è caratterizzata in questi anni come un campione di conservatorismo, il Partito Democratico. Un “voto utile” rispetto a quello di opinione o di appartenenza, necessario a cannibalizzare le forze alla sua sinistra, ad impedire in ogni modo che potesse affermarsi una formazione di centro alla sua destra.
L’operazione ha avuto un certo successo, più di immagine che nella sostanza, tuttavia un successo che ha determinato, all’indomani dei risultati nelle grandi città, una slavina di autocompiacimento, tutto bene madama la marchesa, inutile parlare di progetti e di idee nuove, meglio “insinuare che Calenda è in combutta con la destra, una specie di “socialfascista” d’antan” scrive Stefano Folli sulla Repubblica oppure “un leader dei salotti e ladro di seggi” per dirla con quel campione di Francesco Boccia.
Una cosa sembra certa: se il Pd insegue i populisti perde, se si libera dall’abbraccio dei Cinque Stelle può vincere. Altro che “Conte o morte” di zingarettiana memoria o “alleanza sperimentale” per dirla con Prodi.
A questo punto i casi sono due: o il Pd è capace di rinnovare la sua identità politica rinunciando al “pasticcio” demo-comunista facendo nascere un grande partito socialdemocratico, oppure la sua disfatta sarà definitiva lasciando spazio ad un rassembrement riformista che, come dimostrano gli eccellenti risultati di queste elezioni amministrative ed in particolare il successo a Roma della lista civica di Azione, sarà in grado nel 2023 di far vincere la sinistra.
La proposta politica messa in campo da Carlo Calenda a Roma è stato un esperimento di straordinario interesse: distaccandosi dal grumo vischioso di liste e micro aggregazioni corporative, nel pieno della crisi della democrazia rappresentativa, ha interpretato, oltre alla imperiosa necessità della competenza analitica e gestionale, il bisogno espresso da una parte significativa di cittadini perché l’Italia si avvii, dopo il conclamato fallimento della cosiddetta seconda Repubblica, sulla strada che conduce alla grande riforma costituzionale.
Con il ripetuto richiamo di Calenda al liberal socialismo rosselliano ed azionista – accompagnato da una corretta, meditata analisi e proposta di soluzione dei problemi che gravano sulle diverse realtà sociali ed economiche, che in modo squilibrato sono costrette, nella Capitale come altrove, ad una difficile convivenza – si sono gettate le basi per un progetto riformista europeo e nazionale in grado di correggere questi squilibri neutralizzando gli interessi di gruppi corporativi e di potere che penalizzano gli interessi generali aumentando i disagi ed i costi per i cittadini.
Che non sia un sogno di fine estate lo dimostrano i dati di queste amministrative nei comuni sopra gli 80 mila abitanti: Italia viva, + Europa e Azione raggiungono insieme il 9,3%: è la più convincente dimostrazione di quanto sia necessario mettersi a lavorare per portare a livello nazionale l’esperimento romano. L’idea è quella della costruzione di un nuovo soggetto politico: dice Matteo Renzi “adesso dobbiamo costruire un area vasta di riformisti e liberali tutti insieme”. Anche l’ex CISL Marco Bentivogli fondatore della start up civica “Base Italia” guarda con interesse in questa direzione: “bisogna riconfigurare e riedificare la politica”.
Tutto questo non si fa lisciando il pelo alla protesta e tanto meno parlando alla cosiddetta pancia degli elettori: l’astensione dal voto non è populismo in lockdown o estraneità dalla politica, ma più semplicemente è la prova evidente del poco interesse dei cittadini per la gara propagandistica tra i partiti.
“Negli ultimi anni la politica è scivolata ai margini della sfera di decisione – ha detto Marco Revelli – le cose importanti si decidono altrove rispetto ai luoghi elettivi. I partiti si azzuffano su sicurezza e spazzatura, ma gli elettori percepiscono che si tratta quasi solo di retorica”.
Di fronte alla pandemia e alla crisi economica, di fronte alle incognite della transizione digitale ed ecologica, ciò che conta è il fare. Draghi se ne infischia di quanti lo tirano per la giacca, delle critiche e delle polemiche, tira dritto per rispettare tempi e modalità del contratto sottoscritto a Bruxelles e approvato dal Parlamento, perché c’è qualcosa di più importante del conflitto politico soprattutto quando si rivela pretestuoso e inconcludente.
Il non voto ha questo significato: andiamo avanti, ha scritto Antonio Polito “rendiamoci più utili a un Paese che si sta rialzando”.