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Ricordare la vita di Cesare Pavese, a settant’anni dalla morte

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“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” Con questa frase appuntata sulla prima pagina del suo Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese si congedava dagli uomini e dalla vita il 27 agosto del 1950 con una overdose di sonniferi. Aleggia sempre un alone macabro sulle celebrazioni di una data che segna la morte, anziché la nascita, di un personaggio illustre della nostra storia. A maggior ragione, si direbbe, se la fine è cercata, se si tratta di un suicidio. Eppure, mai come nel caso di Cesare Pavese, nella cui storia vita e morte appaiono indissolubilmente legate e per il quale il suicidio diventa quasi topos letterario, si ha la sensazione che ricordare la sua morte significa anche celebrarne la vita.  

In questi mesi, Minimum Fax ha riportato in libreria Il vizio assurdo, la biografia che su Cesare Pavese scrisse nel 1960 uno dei suoi amici più cari, Davide Lajolo. Leggerla, o rileggerla, in questi giorni appare un buon modo per ricordare il grande scrittore piemontese a settant’anni dalla sua scomparsa.

Nonostante il titolo del libro, che prende in prestito l’ultimo verso della poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, e appare quasi il manifesto di un’indagine, di cui Lajolo si fa carico, sul tarlo del suicidio che sempre avvelenò la mente del suo amico, Il vizio assurdo è soprattutto il racconto della vita di Cesare Pavese, più che della sua morte, dall’infanzia in campagna agli anni della maturità fino al tragico epilogo. Attraverso i ricordi dei suoi amici più cari e le pagine di lettere e poesie ritrovate nel baule gelosamente custodito dalla sorella nella stanza studio di via Lamarmora 35 a Torino, dove Pavese visse fino alla fine, Lajolo ripercorre la storia dell’amico Cesare, ricostruendo i tratti della sua personalità attraverso pagine da cui traspare la sincerità dell’affetto e l’empatia di chi scrive, e in cui non manca una nota di rimpianto di un amico che si chiede “potevamo fare di più, allora, quando viveva accanto a noi?”.

L’amicizia tra i due scrittori nacque la sera stessa del 1945 in cui Fernanda Pivano arrivò nell’ufficio di Davide Lajolo, nella redazione dell’Unità di Torino, e gli presentò Cesare Pavese. Un’amicizia solida tra due uomini che per personalità e temperamento non potevano essere più distanti “l’uno sempre deciso e battagliero a vivere; l’altro sempre disperato e deciso a morire.” A unire Lajolo e Pavese era soprattutto il loro viscerale comune attaccamento alle proprie terre d’origine, le Langhe per l’uno, il Monferrato per l’altro. Pavese era nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, Lajolo a Vinchio, nella vicina provincia astigiana “le nostre colline si guardano ogni mattina all’alba e la notte respirano nello stesso incantato silenzio” scrive Lajolo nel capitolo del libro sugli itinerari pavesiani. Le lunghe passeggiate nelle notti torinesi, subito dopo la guerra, i due amici le passavano spesso a ricordare le strade di campagna percorse da ragazzi, i filari delle vigne, il suono dello scorrere dei fiumi e il verso delle civette, l’odore della terra intrisa di pioggia, la sensazione di terrore per l’arrivo della grandine che distrugge il lavoro del contadino. “La tempesta è come il destino – gli confidò Pavese in una notte di temporale – si abbatte su una vigna e risparmia l’altra, distrugge la campagna attorno a un paese e lascia intoccate le vigne del paese vicino. Su di me invece grandina sempre, io mi sento costantemente un contadino grandinato”.

Il legame con la sua terra emerge ovunque nell’opera di Pavese, che sia il racconto della Resistenza partigiana combattuta su quelle stesse colline, l’elaborazione della natura primitiva e tragica nel mito, o il suo “tornare al paese come ricerca del tempo felice dell’infanzia” (che gli attira i severi ammonimenti del professor Monti), appare imprescindibile partire dalla terra per tentare di comprendere Pavese.  “Tutto in Pavese è partito dalla campagna come luogo di incanto e luogo tragico”, essa è in lui prima della letteratura, prima dei tanti libri letti e alla campagna lo scrittore tornerà sempre in cerca di una breve quiete dai suoi lunghi affanni e delle parole confortanti del suo amico più caro, il falegname Pinolo Scaglione (il Nuto de La luna e i falò). Eppure è in città, a Torino, che Pavese visse i suoi anni più felici, quelli del liceo D’Azeglio e dell’università, quelli contraddistinti dall’influenza del professor Augusto Monti, dall’amicizia con Mario Sturani, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio e poi Giulio Einaudi, che di lì a poco fonderà la casa editrice per la cui crescita fu fondamentale l’apporto di Pavese.

Sono gli anni dell’impegno antifascista che in lui si traduce nella volontà di combattere l’autarchia culturale del regime introducendo ai lettori italiani con le sue traduzioni dall’inglese i più importanti scrittori americani. Subirà un anno di confino a Brancaleone, in Calabria, ma non si unirà mai ai suoi amici nella guerra di Resistenza e questa sua scelta gli rimarrà addosso, in quei pochi anni che gli restano,  come una macchia indelebile nel suo onore di uomo. La sua fuga dalla lotta partigiana acuisce un complesso di inferiorità già emerso nel suo rapporto con le donne. A questo rapporto di Cesare Pavese con le donne, sempre infelice e sfortunato, Davide Lajolo, attirandosi non poche critiche all’indomani dell’uscita del libro, attribuisce un’importanza determinante nel cammino di Pavese verso il suicidio. Un cammino già intrapreso, o quantomeno già vagheggiato e si direbbe teorizzato, nelle prime sue liriche e nelle lettere risalenti agli anni del liceo. Eccolo il “vizio assurdo” di Pavese, che emerge già in tenera età.

Leggendo la biografia di Lajolo si ha la sensazione che sia stata la letteratura a mantenere in vita Cesare Pavese per i quarantadue anni in cui è rimasto. “L’unico appoggio che mi resta al mondo è la speranza che io valga, o varrò, qualcosa alla penna”, quando scrive queste parole al suo amico Mario Sturani, Pavese ha diciotto anni e le donne lo hanno già ferito. A lui preferiscono sempre qualcun altro. Come l’ultima sua cotta, una cantante ballerina a cui il timido studente aveva trovato il coraggio di chiedere un appuntamento. La aspetterà invano per sei ore, sotto una pioggia battente, all’entrata del caffè-concerto La Meridiana: un altro pretendente, quella sera, ottenne di godere della sua compagnia.

Altre donne arrivarono nella vita dello scrittore dopo la cantante ballerina, una su tutte gli devastò l’anima, quella che Lajolo, come Pavese prima di lui nelle liriche di Lavorare stanca, chiama “la donna dalla voce rauca”, innominabile come fosse maledetta. È a quella voce rauca che lo scrittore sembra tornare sempre quando l’ennesima donna gli infligge l’ennesima delusione. Le sofferenze subite si riflettono sul triste destino cui lo scrittore condanna quasi tutti i personaggi femminili delle sue opere, attirandosi accuse di misoginia. Eppure lui l’ha attesa fino alla fine la donna da sposare, quella capace di curare il Pavese malato di solitudine, che si guardava allo specchio per sentirsi meno solo. L’ultimo rifiuto gli giunse dall’attrice americana Constance Dowling, con una telefonata in agosto. Nella camera 346 dell’Albergo Roma di Torino il 27 dello stesso mese Pavese fa qualche telefonata, cerca compagnia, ma nessuna delle tre o quattro donne che chiama accetta il suo invito. Una di loro gli confessa bruscamente di trovarlo noioso. Poco dopo Cesare Pavese si suicida ingerendo sedici bustine di sonnifero. È rimasto fino alla fine il ragazzo che aspettava l’amore sotto la pioggia.

“Non ci si uccide per l’amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inerzia, infermità, nulla.”

Quello che Davide Lajolo ha voluto fare scrivendo Il vizio assurdo a dieci anni dalla scomparsa dell’amico Pavese, è stato cercare di rendere giustizia alla complessità della vita dell’uomo e alla sua importanza di scrittore, poeta e intellettuale tentando di allontanare il rischio che tutta la sua grandezza finisse per appiattirsi nella dimensione pessimistica del suo, seppur fondamentale, diario postumo “Il mestiere di vivere”. Un diario che si fa a volte posa rivelando a tratti una sorta di compiacimento nell’autocommiserazione e un gusto nell’esasperazione dei problemi. “Ma il Pavese pubblico non è meno reale del Pavese privato – scrive Lajolo – la sua angosciata ma coraggiosa ricerca per legarsi al mondo degli uomini non è meno importante della sua desolante rinuncia”.

Quella di Pavese è una personalità sfuggente, contraddittoria, timida e schiva ma anche presuntuosa, all’interno della quale convivevano più anime e tentavano di dialogare mondi opposti. È l’opposizione la cifra di Pavese, lo scontro, il dissidio, tra campagna e città, tra fedeltà e tradimento, solitudine e desiderio di contatto, realismo e simbolismo. Emerge la volontà di osservare la complessità della realtà rinunciando alla retorica, di indagarne ogni aspetto per coglierne il dramma, la tragedia. Come quando nelle ultime pagine de La casa in collina parla dei cadaveri dei repubblichini sparsi nelle sue campagne e li paragona a ogni altro uomo, “ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Questa sua frase, che a suo tempo fece storcere il naso a qualcuno, è una presa d’atto “al di fuori di ogni facile propaganda” di chi non rinnega il suo antifascismo ma intende guardare con coscienza alla guerra e alla tragedia umana.

Il suo tentativo di “legarsi al mondo degli uomini” si riflette anche nella sua tardiva iscrizione al PC, un tentativo di impegno, come un desiderio di riscatto per non aver combattuto, nel ricordo degli amici che si sono sacrificati per la Resistenza, Ginzburg morto in prigione per le torture subite, il giovane Gaspare Pajetta e Pintor caduti sul campo. Ma anche questo ha il sapore di un procrastinare la fine, uno sforzo di allontanare da sé quel vizio assurdo che non lo lascia mai. La letteratura resta il suo ultimo legame con la vita. Il suo ultimo romanzo La luna e i falò, è uno dei suoi più belli, un ritorno alla sua terra, come un cerchio che si chiude. Nello stesso anno in cui si uccide riceve il Premio Strega per La bella estate, la consacrazione è definitiva ma lui non ha più nulla da dire, più nulla da scrivere, dice di sentirsi, in una metafora di rara spietatezza, come “un fucile sparato”. L’ultimo legame con la vita si recide e non a caso annuncia la sua morte sul diario con la frase “non scriverò più”. La sua vita si identifica con la scrittura e la morte è la sua assenza.

Pavese ci ha lasciato il racconto di una generazione sofferta, che ha conosciuto la disperazione, la guerra, la lotta fratricida, ci ha lasciato il racconto di una condizione, la sua, e attraverso di essa quella di tutti noi, la tragedia umana che cambia forma eppure non muta. E a settant’anni dalla sua rinuncia alla vita, la voce di Cesare Pavese che “valeva alla penna” arriva ancora, viva, all’orecchio di quelli che non hanno ancora imparato il mestiere di vivere.






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