Pochi mesi prima di quel fatidico festival di Sanremo, Tenco partecipò a un dibattito con alcuni giovani in un locale alternativo di Roma. I giovani lo contestarono aspramente (qualcuno gli dette anche del borghese parruccone) in nome della protesta senza senso e senza obiettivi cui si erano lasciati andare la maggior parte dei giovani “contestatori”. “Io protesto sempre contro tutti e contro tutto” gli urlò un ragazzo, mentre Tenco cercava di riportare ad un ragionamento serio, che oggi definiremmo di tipo riformista. La protesta – questo era il suo ragionamento – non si importa da altri paesi, in America i giovani protestano contro la guerra in Vietnam ma anche noi abbiamo il nostro Vietnam. Tenco è un riformista, diremmo oggi, la sua adesione al Partito Socialista (che lo portò a partecipare attivamente ai moti di Genova contro il governo Tambroni) è suggerita da una visione politica concreta, non condizionata da mode infantili e transeunti.
Quel dibattito di cui ci è arrivata una registrazione audio integrale ci fa capire qual è lo stato d’animo del Tenco che prepara la partecipazione al Festival di Sanremo. Tenco vuole dare una risposta concreta ai suoi contestatori che lo accusano di volersi integrare nel sistema. Cerca una canzone che tratti in forma poetica un problema reale della società italiana del momento. E arriva a “Ciao amore ciao” dopo un lungo e travagliato processo di scrittura e riscrittura del testo.
Nella prima versione si rivolge a una donna, a una di quelle ragazze che vivono sognando l’amore e restano ad aspettare il principe azzurro.
La seconda versione contiene già il tema dell’emigrazione, espresso nel saluto a te “… che stai nella collina” da parte di chi ha lasciato il paese natale per inurbarsi nella grande città (come Tenco che aveva lasciato Ricaldone per Genova, Milano e Roma). Potrei tornare indietro, dice, ma oramai la mia vita è una prigione di vetro.
La terza versione si intitola “li vidi tornare” e parla di un bambino che vede passare i soldati armati delle loro “lucenti spade” e poi assiste al ritorno dei loro corpi privi di vita.
Infine la versione definitiva. Le parole sono questa volta più attente, più pesate e più moderne nella loro contrapposizione tra il mondo dei campi e quello della città, tra il restare al proprio paese ed emigrare. Due versi fra tutti sembrano costituire la sintesi di quello che non è soltanto il rimpianto e la nostalgia per un mondo che sta scomparendo ma la coscienza di una tragica trasformazione culturale. E sono fra i versi più belli di tutta la canzone italiana: “Saltare cento anni in un giorno solo/ dai carri nei campi agli aerei nel cielo”.
Ora Tenco lo ha trovato il problema concreto e doloroso della società italiana: l’emigrazione interna, che in quegli anni del miracolo economico ha costretto migliaia e migliaia (potremmo dire anche milioni) di italiani a lasciare il paese natale dove hanno le proprie radici, per ritrovarsi in città di cui non riconoscono i costumi e neppure la lingua, condannati ad essere stranieri in patria per generazioni.
Canzone attuale, di impegno (nel senso sartriano di “engagement”), che il festival non capisce, non recepisce neppure sotto la mascheratura di un refrain “alla maniera sanremese”. Qualcuno dice “per colpa” di quel “Ciao amore ciao” ma oggi, dopo 55 anni dalla tragedia, siamo portati a pensare che Luigi Tenco, contraddicendo lo spirito e la lettera di una delle sue canzoni più belle (“vedrai vedrai, vedrai che cambierà…”) non abbia saputo aspettare il cambiamento che sarebbe arrivato subito dopo la sua morte. I rivoluzionari a parole e i contestatori globali non hanno pazienza, mentre i riformisti devono averla.