Non è nelle intenzioni di “Moondo” porre l’accento su certi stereotipi, forse anche vieti, della città del Vesuvio, ma si vuole soltanto riguardarli sotto una diversa luce, una luce che faccia convivere la religiosità, con il mito, il folklore, e perché no?, la magìa. Diana Negri è ritornata l’altro giorno sul tema di San Gennaro (Un Santo Scomodo) e sono state proprio le ultime sue righe a suggerire in parte il titolo di oggi.
Napoli è la città del sangue che si liquefa: tra il Seicento e l’Ottocento erano circa 20 le ampolle di sangue che in vari momenti si scioglievano, ma quello di San Gennaro è sempre stato considerato l’unico prodigio degno di attenzione, proprio per lo stretto legame di Gennaro con quella terra e con il suo popolo.
Tre volte l’anno si ripete il miracolo; quello di primavera cade il sabato precedente la prima domenica di maggio, data collegata alla traslazione delle ossa del santo avvenuta nel 1497; quello del 19 settembre è legato alla decapitazione e il modo nel quale esso avviene (se il sangue ribolle, se si scioglie lentamente, se avviene sùbito o con molto ritardo) indica il destino della città per quell’anno.
Il terzo miracolo, quello del 16 dicembre, è invece quello del popolo, collegato all’eruzione del 1631, una delle più disastrose dei tempi moderni: lo scioglimento del sangue arrestò la lava pronta a raggiungere la città (ben lo ricorda il dipinto di Spadaro che ornava quell’articolo di Diana Negri).
Il prodigio avviene abitualmente quasi in forma privata, senza la presenza del cardinale e si svolge nella Cappella del Tesoro; non quest’anno poiché, a causa delle misure restrittive, la cerimonia si è svolta in Cattedrale.
Il miracolo, però, ieri l’altro non c’è stato; era atteso con trepidazione, giacché, dati i tempi, la cosa non sarebbe stata di buon auspicio. Nonostante l’attesa paziente dei fedeli durata fino a sera, la liquefazione del sangue non è avvenuta.
La credenza popolare ritieneche il mancato scioglimento sia un segnale infausto, un presagio d’imminenti sciagure; così fu in altre analoghe circostanze: in concomitanza dello scoppio della seconda guerra mondiale, nel settembre del 1973 in occasione della diffusione del colera e nel settembre del 1980, quando il mancato esito fu considerato presagio funesto e la sciagura del terremoto avvenne di lì a poco.
Ieri l’altro si sperava nell’avverarsi del prodigio perché questo 2020 non divenisse ancora più infausto di quanto già non lo sia. E invece no, questa volta il Santo ha detto no; chissà che non l’abbia “disturbato” il fatto che, in barba al protocollo, per l’ultima presenza di Sepe-cardinale, le ampolle erano state trasferite dalla Cappella del Tesoro nel Duomo: il mutamento di rito potrebbe non essergli piaciuto… E l’aveva scritto Diana Negri che Gennaro è davvero «un santo scomodo»!
L’uomo ha da sempre alzato gli occhi al cielo alla ricerca di qualcosa più grande di lui. Il mito e il senso del sacro, del trascendente sono nati insieme all’uomo accompagnandolo nel córso della sua evoluzione al punto di far dire a Einstein che «la più bella esperienza che l’uomo possa fare è il mistero». «Il bisogno di “senso” è insopprimibile e poco importa che sia trovato in un Dio, una fede, la scienza o l’intelletto. È il livello più alto del bisogno di appartenenza identificato da Maslow tra i bisogni fondamentali dell’essere umano ‒ afferma Diana Negri ‒ e la mancanza di un significato più alto della propria esistenza, collegato a un Tutto sacro, è il male di questo terzo millennio».
Per quanto si possa essere indifferenti a ciò che riguarda il Patrono di Napoli, non può farsi a meno di confrontarsi con lui e, per quanto affezionati e seguaci del razionale, non si può ignorarne il mistero. Il mistero del miracolo che si affaccia a Napoli più volte con il sangue che si scioglie, fra l’esultare della città, pure in tristi periodi, giacché l’evento è capace di infondere comunque gioia.
«San Gennaro è così indissolubilmente legato alla storia di Napoli da essere, insieme al suo acerrimo nemico, il Vesuvio, uno dei simboli internazionali della città – scrive Pietro Treccagnoli in un suo Elogio – Il suo sangue è come la lava del vulcano, che però vivifica senza distruggere». San Gennaro tiene sempre vivo il paganesimo incoercibile di Napoli, la città più greca ed epicurea d’Italia. Quell’elogio vuole essere «una confessione d’impotenza verso l’ignoto e un invito a chi non ha avuto la fortuna di nascere napoletano a godere del mistero che, come il sole, illumina questo paradiso abitato da diavoli».
«Il vero miracolo del santo – osserva Vincenzo De Gregorio, l’Abate della Cappella, è la fede che egli è capace di infondere nel popolo napoletano». Lo stesso miracolo, però, nel comune sentire, conserva il carattere di una profezia, nel bene o nel male, secondo il verificarsi o meno del prodigio. In realtà la figura del Santo va oltre le caratteristiche del credo per toccare quelle della credenza. Il fenomeno si distacca così dall’evento miracoloso, pregnante di religiosità, per divenire financo un elemento scaramantico: la devozione al patrono continua a resistere e addirittura a crescere fino a trasformare il martire in un’icona della città. Un’icona ch’è divenuta anche soggetto prediletto di alcuni artisti napoletani, che contribuiscono a diffonderla ben molto al di là dei confini ristretti della città; al pari, s’ha da dire, del rosso corno di corallo, segno decisamente distintivo di diffusa scaramanzia.
A chi scrive, in tema di miti, questa volta moderni, è capitato pure di riferire della scomparsa di Maradona (un altro “santo”, un altro “mito”) e della febbre che ha colpito gran parte della città consideratasi improvvisamente orfana di un “eroe”, per un po’ dimenticato, ma che è sùbito riaffiorato apparendo in tutte le sue superbe qualità calcistiche capaci di oscurare e far dimenticare ampiamente tutto il resto.
Sì, perché al popolo occorre un mito per sentirsi unito, specialmente in momenti di crisi come quelli che sta vivendo in questi giorni di pandemia.
E Maradona lo è stato – e continua a esserlo – per i napoletani, non soltanto i tifosi accaniti suoi e della squadra; nonostante che in essa non militi nessun napoletano verace, nonostante che el Pibe avesse tante cose da farsi perdonare. Ma tant’è, il mito fa tutto superare e dimenticare e restano indelebili le imprese che lo fanno ricordare come un eroe, proprio un eroe mitologico: un altro “eroe dei due mondi”, tanto che c’è stato anche chi ha azzardato di voler accostare il suo nome a quello di Garibaldi, cui è intitolata la piazza della Stazione Ferroviaria di Napoli (ma questo è un altro discorso). Il mito è quello che serve per tener desta l’attenzione di un popolo bisognoso di esprimere la propria religiosità, anche se laica.