giovedì 21 Novembre 2024
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Siamo storie, siamo solo storie e delle nostre storie seminiamo tracce che altre storie dovranno elaborare

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Non so bene se l’esperimento possa funzionare, ma ci provo. 

Vi racconto di una cena organizzata per parlare di fotografia.

Mi sentivo a mio agio, l’argomento lo conosco bene, avrei conosciuto, tramite amici comuni, una fotografa di cui avevo visto alcune immagini e mi dava l’impressione di essere brava. Se aggiungiamo che considero la conversazione l’unica chiave di accesso ad una comune idea fatta di fantasia e di immaginazione, mi sembrava un motivo sufficiente per andarci con entusiasmo. 

Dovendo cenare con una artista mi sentivo al sicuro dal rischio di chi considera l’intrattenimento, l’inganno del tempo, un valore supremo per la sopravvivenza; non avevo paura di dover riempire i vuoti senza pensieri e senza sforzi e nemmeno di trovarmi di fronte all’odioso “tutto è cultura”, la sagra della zeppola è come Shakespeare, l’oroscopo come Keplero. No, incontravo una artista, bene o male che fosse andata, sarei stato dentro la mia idea radicata e di sinistra secondo cui la cultura è soltanto quella prodotta da una elite, formata dentro una civiltà per creare canoni estetici e senso critico. 

La cultura non è la conoscenza ma il presupposto che la consente. Sono le oligarchie autoritarie a cancellare le elite e raccontare che tutto è cultura in modo che questa possa sparire sepolta da un mare di mediocrità. Quella sera no, questo rischio non lo avrei corso. 

Questo pensavo mentre in una serata primaverile innaffiata da una brezza marina odorosa di Mediterraneo contavo i passi verso il ristorante che ci aspettava e non immaginavo minimamente che poi avrei deciso di raccontarvi il succo della serata. 

Ad essere sincero del tutto, conoscendo le mie paure e i miei odiosi rigurgiti di razzismo (al contrario) un rischio ancora all’orizzonte ci sarebbe potuto essere. 

E se mi portassero in uno di quei ristoranti dove invece di cucinare credono di aver scoperto l’origine della gravitazione universale? Si, uno di quelli dove ti fanno entrare eccedendo in inchini e ti accolgono in modo eccessivo ( io questo genere di individuo lo chiamo l’accoglione, ma non glielo dite) per poi porgerti una pergamena come fosse la Magna Charta Libertatum e non il menù e recitare con lo stesso tono che il Nolano Giordano Bruno usò a Oxford nella chiesa di St Mary per elargirti una visione filosofica molto più profonda della tua con discorsi del tipo: 

In questo ristorante noi offriamo una esperienza gastronomica, un percorso esperienziale attraverso il cibo che sia in grado di coinvolgere tutti i sensi. Profumi, colori, sapori, densità concentrate o rarefatte, come una sinfonia d’autore. 

Se succedesse una cosa del genere, che faccio? Proprio io, che a sinfonie sono stato allevato, potrei sopportare di immaginare Berlioz in un piatto da portata? No, estraneo ad ogni genere di violenza mi limiterei a dire: una bistecca al sangue, e se ne vada in cucina per favore.

Nulla di tutto questo, la conversazione prende subito la porta più congeniale alla fotografia ed alla mia attività nel settore della cultura: il rapporto tra realtà e immagine. Ora, siccome è inusuale che su questo giornale si descriva una cena senza darvi le ricette, per evitare contestazioni riporterò parola per parola quello che è successo attraverso una trascrizione stenografica.

Parlami del tuo modo di vedere la fotografia

La foto nasce nella mia immaginazione. Prima che io possa registrarla con la macchina, so che sarà così, mi dice la signora fotografa che avevo seduta di fronte, riferendosi ad alcune foto di donne velate sottratte a forza dalle loro liturgie Pasquali e trasformate in immagini che mi avevano affascinato molto. Così, rapito dalle tracce lasciate dalle loro mani su un fondo nero come una supplica dovuta alla  rassegnazione, azzardo subito una proposta, chiedo se fosse possibile intervenire sulle immagini strappandole una volta ancora al loro contesto e facendone delle animazioni per racconti secondo il mio modo di concepirle, la mia poesia.

No! Cosa dovrei fare? Darti le foto e permetterti di modificare quello che ho fatto?

Sai, cara signora, la rivoluzione digitale è proprio questo, molto lontana dall’essere una tecnologia, è un modo diverso di concepire le nostre due attività, è un trapano che ha creato fori perenni tra i saperi, le competenze e i talenti di ciascuno di noi riuscendo a mettere insieme e in sintonia quelli che ancora credono alla civiltà come espressione comune, alla cultura come bene supremo e medicina contro i malanni moderni. Crea muri di individualità mentre offre strumenti di coesistenza a tutti coloro che credono all’individuo come nemico della persona e delle sue funzioni all’interno della società. In giro la si confonde con una tecnologia, ma è solo la possibilità che ogni prodotto della mente possa essere materia prima per una ulteriore manipolazione di significati.

Vuoi dirmi che daresti alle stesse idee un nuovo ruolo nell’universo dei significati, che non sarebbe un riciclo, un riadattamento, ma un repurpose come dicono gli inglesi?

Esatto ne farei altro da sé, le userei come segno invece che come fatto, estrarrei il farsi dal tuo fatto. Ti convince?

Non molto. Per far diventare quelle donne una immagine ho dovuto togliere loro quasi tutte le dimensioni che le legavano al reale: peso, profumo, tridimensionalità, ho dovuto congelare l’istante, capire cosa fosse un istante per cancellare il prima, il dopo e il dove ….. arrivi tu e mi dici dammele… e poi, non saranno più mie.

Proviamo a fare un ragionamento insieme, mi piace l’approccio che hai dato, ma devo portanti a pensare per un momento alla scienza. Comprendere le cose prima di vederle e l’essenza del pensiero scientifico, da sempre, non solo per via di quell’infinitamente piccolo di cui ogni tanto senti parlare al telegiornale dopo una importante scoperta, da sempre la fisica ha vissuto di questa grande capacità della ragione. La terra si è capito girasse millenni prima che dallo spazio la si vedesse girare e a dispetto del fatto che ancora andiamo dicendo in giro che il sole è tramontato, cioè è andato al di là dei monti, mentre non si è mai mosso dalla sua posizione, è la terra che gira, vedi come la controintuizione del reale via vera mentre la descrizione no. Questo hai fatto a quelle donne durante il rito, inchiodandole le hai rese vere, ti convince?

Proprio così, le ho scarnificate di tutto quello che di reale avevano addosso…

Per iniettare un potere di fascino che da sole, per strada, non avrebbero avuto, almeno su di me che le vedo ora. Loro sono poesia solo perché hanno vissuto te non per te.

Questo per me è la fotografia trasportare il soggetto in una forma di seduzione estetica, di equilibrio interiore che soddisfi prima di tutto me, per questo non te le voglio dare… o meglio ho paura. E se poi quello che fai non mi piace? 

Ma quello che hai fatto resta tuo

E quello che nascerà ? È nostro?

Sarà la tua giovane età, ma io non faccio da anni un abuso di aggettivi possessivi così frequente. Mio, tuo, nostro, è solo suo se riusciremo a dare al film, perché di questo parlo, una vita autonoma.

Che c’entra il film….

Da molti anni uso fotografie per costruire dei set virtuali all’interno dei quali faccio muovere una macchina da presa. Le fotografie sono i miei attori e le mie scenografie, i movimenti della macchina da presa la scansione suggerita al pubblico per una lettura in contrappunto. Parliamo del tempo e di come lo hai fermato o credi di averlo fatto congelando il soggetto in uno scatto

Certo che l’ho fatto. La foto è l’istante in cui ti passa davanti e sai che sarà quello giusto. Kairos come lo chiamavano i Greci

E con i Greci mi inviti a nozze. Andiamo avanti. Le fotografie che sto vedendo, cara signora, certificano accadimenti, eventi continuati e concatenati. Tu credi di cogliere il tempo e congelarlo, ma non è così. All’interno delle tue inquadrature nulla è, tutto avviene, ed è questa la magia dell’illusione, è questo il saper estirpare ad arte pezzi di reale per costruire verità. Ho tenuto un corso a Berlino che si chiamava The power of the illusion ed è quello che mi affascina da molti anni a questa parte: creare un movimento cinematografico a partire da immagini fotografiche che un inglese avrebbe chiamato “still” facendo un grave errore filosofico. Sono eventi, non istanti, non sono mai fermi. Il fatto che il tempo non si veda scorrere non significa che non accadano in un tempo che non ha nulla a che fare con il nostro. E come in fisica quando si spiega la differenza tra un sasso, una sedia, un bacio e una fuga di Bach.

Per me sei pazzo…

Mai stato meglio. Per un fisico sarebbe chiarissimo. Se chiamo eventi le tue foto e non cose e contesto la definizione di “still” è solo perché mentre una roccia del promontorio la ritrovi al suo posto anche dopo secoli e di una sedia che non fosse al suo posto puoi sempre chiederti dove sia andata, un bacio o una fuga di Bach quando hanno finito la loro azione non hanno ragione di esistere e nemmeno un posto dove stare, ma non puoi dire che non siano. A loro, agli eventi, manca il senso della realtà. La modificano, a volte per sempre, ma non coesistono con essa. Le tue foto non sono oggetti e per questo sono indipendenti dal tempo nella stessa maniera per la quale lo sono gli accadimenti in natura. Proprio in virtù di questo puoi continuare a farle vivere cambiando loro la dimensione dell’esistenza.

Mi fai paura, vuoi della salsa? 

NIENTE SALSA!!! Urlo e poi chiedo scusa, ma sono terrorizzato all’idea di finire nella rubrica di cucina!

Sarei felice di mettere in scena, le tue foto, che è molto diverso da usarle come dici tu. Costruirci una storia e fornirle di un tempo sia pure simbolicamente inteso, ricostruirle in uno spazio che non sia loro, estrometterle dalla cornice ed anche dalla inquadratura. Fu Orazio a teorizzare l’unità tra la poesia e l’immagine e gli andò dietro Giovan Battista Vico 1700 anni dopo a certificare nella sua filosofia che ci sono cose che gli occhi non vedono e la mente percepisce ma che qualcuno sa come esprimere in immagini sensibili.

Per me sei contraddittorio, da una parte sembra che le mie foto ti emozionino e dall’altra io dovrei vederle nelle mani di un estraneo o comunque di qualcuno che non sia io. La fotografia è l’allineamento del soggetto, della mia mente e di uno strumento che registra attraverso …. Non so nemmeno come, ma lo fa… e che produce quello che il pubblico vede. Quello che io voglio fargli vedere.

Quello che lui legge attraverso, mia cara, come un lector in fabula, sempre di più e in modo sempre più banale se non ci pensiamo noi. Non credere che la sensibilità di un lettore possa essere la tua e non farmi la solita musica dell’arte romantica generata da una ispirazione venuta chissà da dove. Questo foto trasudano disperazione come è giusto sia quando un artista lavora. Sono frutto di fatica, sono la lotta tra te e la materia, una lotta titanica, mitologica, fisica. Vero o no?…… Allora?…..( sottovoce per non finire della rubrica beverage)  un po’ di vino? 

Si grazie. Ci vuole.

Dal tempo di Gian Battista Vico ad oggi sono passati altri 500 anni e le possibilità di racconto diventano infinitamente più complesse. I meccanismi attraverso i quali si genera una emozione e quelli della conoscenza sono fortemente dipendenti dal contesto in cui vengono utilizzati. Ciascuno di noi produce un artefatto che vive di luce propria, ma che è a sua volta la materia prima di un nuovo percorso di scoperta. Per me, per te, per chi verrà nei musei a vedere le opere classiche insieme alle nuove che faccio per ricostruire i significati e i contesti di quelle opere

Questo mi piace, ma dovrei entrare dentro la cosa, elaborarla, farla mia.

Allora, ti faccio una proposta. Ti racconto la Mater Matuta, una donna, come te, una divinità, come ogni artista. Una raccolta unica al mondo presente nel museo di Capua che potrebbe essere raccontata a vantaggio dei molti che non la conoscono. Sono delle sculture che rappresentano una divinità con in braccio un bambino, protettrice delle attività che avvengono dall’alba al tramonto. Come? Una dea a mezzo servizio? No, intanto una delle poche divinità tutte al femminile, la parola “Mattina” la usiamo grazie a lei. Protegge uno spazio di tempo indefinito, mutevole, irrequieto, che è molto in linea con l’idea di tempo legata alla fisica moderna piuttosto che a  quella cronologica a cui la vita, l’orologio, la fisica classica ci aveva abituato? Un tempo così concepito è proprio quello delle tue foto, non ha passato ed ha un futuro che non è ancora reale. È fatto di attività e non di risultati. Parliamo ai ragazzi di cosa possa essere il tempo in modo petico e visivo. I Greci avevano due parole per identificarlo: Cronos è come quello nostro, quello dell’orologio che scorre sempre costante e Kairos, come tu definisci lo scatto, che sempre tempo è, ma è il momento giusto, quello in cui avviene ciò che può cambiare la vita, che può darti la possibilità di scegliere: la crisi (che in greco è parola positiva perché provoca un cambiamento). Corre, Kairos e forse non ripasserà. Capisci la differenza di mentalità tra chi pensa in modo ciclico e chi pensa che una cosa possa essere persa? Kairos, raccontare ai ragazzi di un tempo indefinito, di un futuro ancora non reale, significa raccontare una speranza e io voglio farlo usando la disperazione. A questo servono gli artisti. Tu le fotografi io ci scrivo una storia e poi costruiamo i pezzi per una grande celebrazione della dea, una nuova liturgia con quella donna al centro.

Siamo storie, cara la mia signora, siamo solo storie e delle nostre storie seminiamo tracce che altre storie dovranno elaborare. La complessità del nostro vivere contiene la condanna a vincere gli aggettivi possessivi che usi con tale frequenza: mio, tuo, nostro, siamo storie e siamo tracce con cui solo altri faranno memoria….. noi possiamo solo contribuire.

Non mi fido!

Ma almeno togli le mani davanti al volto, guardami in faccia per un minuto, possibile che debba andare sempre così?

Ce ne andiamo?

Uscendo la brezza era ancora la stessa, i passi scandivano la sedimentazione di quel modo di scambiarsi ragione (ragionare con il significato di conversare) non so se sono riuscito a convincerla, non so se toglierà più le mani dal viso in mia presenza, forse no, ma per una sera la macchina fotografica è rimasta chiusa nella sua borsa.

P.S. Vi sarà capitato di essere a cena con amici, una serata come questa è usuale per tutti. Forse meno è raccontarne il succo, ma in tempi come questi una conversazione in più male non fa. Non ci sono nomi, non c’è l’indirizzo del ristorante, non ci sono piatti e nemmeno stellette con valutazioni di merito. Possiamo restare anonimi, nessuno si accorgerà di noi, la televisione si concentra sui fatti mica sulla filosofia. Qualcuno si chiederà: ma questa cena è vera o completamente inventata?

E che differenza c’è!






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