Gli spaghetti del pecoraio sono un’antica ricetta, le cui origini si perdono nel tempo.
Qui vogliamo rendere omaggio ad una professione, quella del pecoraio appunto, e ad una ricetta tipica legata al suo lavoro, per non disperdere le tradizioni.
Il lavoro del pecoraio
Quello del pecoraio non è un lavoro facile: è necessario condurre le pecore dove c’è erba da brucare in abbondanza, evitare che esse si disperdano nei campi, provvedere alla loro tosatura (un tempo la loro lana era una buona fonte di guadagno), tenere gli agnelli appena nati fuori dalla portata di lupi ed aquile…
Nel gregge c’è sempre l’agnellino più irrequieto: il pastore sa da migliaia di anni che l’unica soluzione per tenerlo fuori dai guai è legarlo con una cordicella al suo bastone conficcato nel terreno. “Ad bacus”, vicino al bastone, dicevano gli antichi romani per indicarlo, da qui il termine “abbacchio”, l’agnellino che si è cibato solo del latte della madre, che i romani arrostiscono con le patate, secondo la tradizione di Pasqua.
Non è un’usanza nata a caso: è a primavera, ieri come oggi, che il pastore procede alla “sbacchaiatura“, cioè all’eliminazione degli agnelli che superano il numero delle pecore morte o vendute durante l’anno, in modo da mantenere l’equilibrio del gregge.
Gli spaghetti del pecoraio, un’antica ricetta da scoprire
Il pastore si guarda bene dal cibarsi lui stesso dell’abbacchio, il guadagno della vendita di Pasqua capita una sola volta l’anno! Deve dunque contentarsi di un cibo più povero ma non meno gustoso. Come gli spaghetti cotti su di un focherello di sterpi e conditi con un paio di cucchiai di ricotta schiacciata con la forchetta e diluita con un po di latte (anche di mucca), fino a trasformarla in una sorta di crema fluida da versare sugli spaghetti ancora caldi. L’opera è completata da un po’ di pecorino grattuggiato, formaggio anch’esso ottenuto dal latte delle pecore. Per i raffinati c’è l’aggiunta di un pizzico di pepe. Mangiati ancora caldi, gli spaghetti del pecoraio, sono una vera delizia.
Forse quando Gabriele D’Annuzio scriveva alla fine della sua poesia “Pastori d’Abruzzo“: “Ah, perchè non son io co’ miei pastori?”, ripensava agli spaghetti offertigli da un generoso pastore alle falde della Maiella. D’Annunzio di piacere se ne intendeva, tanto che scrisse un romanzo intitolato proprio “Il piacere”. Più chiaro di così…