Mi sono chiesto cosa sarebbe accaduto oggi alle profonde considerazioni sull’essere di Parmenide se avesse potuto leggere il libro di Mario Pacelli “Storie nascoste della prima Repubblica”. Mi chiedevo cioè se il filosofo eleatico avrebbe trovato una soluzione al definire l’opinione comune come la negazione della verità o l’avrebbe considerata solo un percorso improprio per svelarla. Certo è che per svelare uno dei misteri raccolti nelle pagine di questo libro la sola speculazione non basta, questo non lo potevano immaginare i padri della nostra filosofia sostanzialmente perché non conoscevano la forza e le tecniche di depistaggio di cui le pagine danno resoconto accurato.
Se qualcuno avesse voglia di immergersi negli intrighi della nostra Repubblica senza scomodare Hitchcock legga il libro di Pacelli, se qualcuno avesse voglia di capire le origini di certi punti di forza del nostro carattere senza scomodare i campionati Europei di calcio, legga il libro di Pacelli, se qualcuno volesse approfondire i propri pregi e difetti cercandone una matrice tipologica senza scomodare una seduta di analisi, legga il libro di Pacelli.
Sugli intrighi c’è poco da dire tranne che quello che salta agli occhi leggendoli uno dietro l’altro invece che sui giornali a distanza di decenni è che: sia che si parli di un golpe, sia che si parli di un attentato, sia che si parli di una banca che fallisce, sia che si parli di riciclaggio i nomi che ricorrono sono sempre gli stessi. La loro capacità di giocare su tutti i tavoli da una parte e dall’altra della barricata in uno scambievole ruolo di guardie e di ladri è oltre ogni immaginazione e inoltre, è fatto con atteggiamenti e modalità così collaudate da apparire simili a se stesse a distanza di decenni. Si ha l’impressione che il libro racconti il contrario della favola di Pollicino, una straordinaria capacità di cancellare ogni impronta del proprio passaggio per mettere la giustizia in difficoltà rispetto alla costruzione di prove solide. Poi c’è anche il depistaggio organizzato, certo, il caffè avvelenato, certo, ma nel caso si fosse scoperti si può sempre dire che si agiva in funzione anticomunista e quindi per salvare lo stato dall’invasione. In certi ambienti funziona sempre e forse, funzionerebbe ancora.
La forza di leggere questi capitoli della storia della Repubblica avvenuti a decenni di distanza in un’unica soluzione, sta proprio nelle coincidenze che uno non si aspetta.
Leggendo si scopre che se dieci anni ci sono voluti per far approvare dal Parlamento la legge Merlin, che portava punti alla dignità della donna, non fu solo per abitudine e maschilismo, l’autore svela come ci fossero, dietro al mercato della case chiuse ed alle licenze, dei fondi neri che venivano versati, a norma di legge, alla Polizia per il pagamento dei confidenti. Si intravede un mercato al di sotto del mercato, fatto di amicizie, favori e protezioni che compare in altra verste anche in altre vicende trattate nel libro quasi a costituire una tipologia da cui non si scappa.
Il percorso verso il riscatto dei diritti della persona contenuti nella Costituzione, è lento perché scardina convinzioni, abitudini, privilegi e mentalità che vengono da molto lontano, ma comunque inesorabile. Si arriva al referendum per il mantenimento della legge su divorzio in cui la vittoria fu schiacciante al punto da farci da capire come molti cattolici riuscirono a separare le proprie convinzioni ed il proprio comportamento dalla libertà di una stato laico. La società agricola era diventata industriale, la stessa agricoltura diventava industria la mentalità degli Italiani era pronta a mutare rotta. Mario Pacelli fa una correlazione molto interessante a proposito della vittoria nel referendum indicando come, negli stessi anni, l’istituto del delitto d’onore fosse ritenuto obsoleto e i diritti dei figli nati al di fuori del matrimonio fossero equiparati a quelli dei figli naturali. “E figlie so figlie” diceva Filomena Marturano a Domenico Soriano già del 1946 quando Eduardo scrisse l’opera, ma si sa, gli artisti arrivano sempre prima della politica.
Ma non sono solo intrighi, ovviamente, ci sono figure cardine della nostra storia che Mario Pacelli ha il merito di tracciare estraendole dal rischio di un dimenticatoio pericoloso per tutti. È il caso della figura di Dossetti che tanta parte ha avuto nella scrittura della nostra Carta e nel significato della parola “persona” come oggetto dei diritti inalienabili dopo un periodo buio di violazioni e di soprusi. Dossetti ebbe un ruolo centrale anche nel suo opporsi a De Gasperi che anteponeva l’opera di mediazione per un governo politico alla rigidità dei principi di un partito cattolico. Leggendo il resoconto di Pacelli nel dibattito anche aspro tra i due aleggia quella “democrazia imperfetta” di cui aveva scritto Don Luigi Sturzo.
Tra le figure che l’autore ricorda c’è Don Milani che nella sua attività di parroco creò quello che Gramsci avrebbe difinito “conflitto”, correlando l’ignoranza e la scarsa religiosità da un lato e denunciando le condizioni di vita e di progressivo impoverimento che la vita dei campi imponeva fino a far intravedere un possibile cambio di proprietà della terra e del bestiame in favore di chi lavorasse per farlo produrre.
Un capitolo approfondito Pacelli lo dedica ad Andreotti “La sua arma vincente si mostrò presto il non mentire mai ma, se necessario, limitarsi a celare accortamente, almeno fino a che fosse possibile, una parte di verità.” Nel 1992 il Parlamento italiano doveva dare al Paese il nuovo Presidente della Repubblica che succedesse a Francesco Cossiga. Veti incrociati portano a bruciare diversi candidati fino a che, una trattativa segreta avrebbe portato la Lega di Bossi a convergere sulla figura di Andreotti. Fu la strage di Capaci a determinare all’improvviso l’esigenza di una risposta immediata ed unitaria del Parlamento. Scalfaro fu preferito ad Andreotti che iniziò la sua inevitabile discesa politica. Diversamente dall’uomo politico che aspira alla ricchezza Andreotti “tendeva a essere sempre più potente e a restarlo” più a lungo possibile. In questa ottica e con questo fine trattò con chi il potere lo aveva e lo gestiva rischiando forse, ci dice Pacelli, di mettere i piedi dove non avrebbe dovuto metterli.
Una lettura ricca e contemporaneamente piacevole, costruita intorno a riferimenti bibliografici che diventano il supporto alle sue descrizioni e ai suoi commenti e, allo stesso tempo possono essere il portale per l’approfondimento di qualsiasi lettore curioso della storia patria. Un libro che contiene anche un piano nascosto e non dichiarato dall’autore, quello di trovare una ragione storica al personaggio un po’ cialtrone, un po’ imbroglione, un po’ sornione, ma in fondo umano che Alberto Sordi ha portato sugli schermi di tutto il mondo come “l’Italiano”. Un libro – specchio come in fondo la storia di un popolo è con in più il merito di riportare alla nostra mente figure della nostra storia di cui oggi si parla meno e che rischiano di essere estromesse dall’immaginario collettivo.