Dopo che il presidente Usa Donald Trump ha chiamato il coronavirus il “virus cinese”, è stato subito criticato per l’affermazione considerata razzista e xenofoba. Lunedì 16 marzo il presidente americano aveva inviato il tweet: “The United States will be powerfully supporting those industries, like Airlines and others, that are particularly affected by the Chinese Virus. We will be stronger than ever before!”(Gli Stati Uniti aiuteranno vigorosamente quei settori, come le compagnie aeree, che sono particolarmente colpite dal virus cinese. Diventeremo più forti che mai!). Da scettico, ho effettuato una breve ricerca sulle epidemie da malattie infettive del sistema respiratorio umano originate in Cina.
Queste epidemie sono cominciate con l’influenza pandemica Asiatica (il virus H2N2 nato a Singapore e Hong Kong e propagatasi in Cina) del 1957 che ha causato nel mondo 1,1 milioni di morti. Nel 1969 si è avuta l’influenza pandemica di Hong Kong (la H3N2 che ha causato un milione di morti nel mondo), quando l’ex colonia britannica era nel mezzo della contestazione della “rivoluzione culturale” cinese. Nel 1996 si è sviluppata l’influenza aviaria (l’H5N1), generata negli allevamenti di pollame cinesi (aviaria, dal latino “avis”, uccello). A questo punto vi è stata una tregua di sette anni, prima che arrivasse la Sindrome Respiratoria Acuta Grave, o SARS (la SARS-CoV) del 2003, originata a Foshan, nella provincia cinese di Guangdong, che ha causato nel mondo 800 decessi. Nel 2004 si ritorna all’influenza aviaria con focolai registrati in 16 province cinesi. Poi passano 15 anni prima che arrivi il coronavirus (COVID-19) sviluppatosi a Wuhan, città cinese nella provincia di Hubei, nel 2019 e che al 18 marzo ha causato nel mondo 8.000 decessi. Dopo tutte queste considerazioni, forse chiamarlo “virus cinese” potrebbe essere un modo per responsabilizzare il governo cinese, senza incolpare i cittadini di quel paese, che soffrono le conseguenze del loro regime totalitario.