Il 27 Agosto del 1950 Pavese decideva di lasciare la vita. “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi“, scrive queste poche note su un foglio lasciato sul comodino accanto ai “Dialoghi con Leucò“. È una delle sue opere meno conosciute ma di una profondità sconvolgente e di una bellezza sublime. In essa intreccia dialoghi immaginari tra mortali e divinità, tra Titani e tra Divinità che discutono e indagano sui più grandi enigmi dell’esistenza. Sarà stato, forse, proprio per questo che Pavese la sceglie per il suo commiato definitivo alla vita. Sospese tra mito e realtà le storie parlano di ciascuno di noi e affascinano per l’intensità dell’emozione che suscitano.
Ce n’è una che mi prende in modo particolare perché propone l’eterno quesito della scelta tra restare al porto, immagine di sicuro riparo dalle tempeste della vita, o tentare il viaggio, avventuroso, ricco di attraenti sorprese ma anche rischioso per gli inevitabili pericoli che nasconde. È “L’isola”, il dialogo che vede protagonisti Odisseo e Calipso.
Ciascuno di noi dovrebbe avere o ha un’isola nel proprio cuore, una meta da raggiungere, un approdo che spera di conquistare. L’isola di Ulisse era Itaca, e Itaca era la sua meta, era tutto per lui, era l’amore, il dovere di padre, l’impegno sociale e politico, il ristoro, la sua ricchezza più grande, l’immagine del suo mondo interiore.
“TUTTI SANNO CHE ODISSEO, NAUFRAGO, SULLA VIA DI RITORNO, RESTÒ 9 ANNI SULL’ISOLA DI OGIGIA, DOVE NON C’ERA CHE CALIPSO, ANTICA DEA”.
Questa è la premessa che apre il dialogo. Da essa Pavese parte per riflettere sul senso della vita e sulla morte, sull’immortalità e sulla finitezza che da sempre aprono dilemmi inquietanti capaci di aprire voragini nelle esistenze più fragili.
Calipso, immortale, aveva bisogno di Ulisse per infrangere la sua solitudine mortale e gli promette l’immortalità in cambio della sua rinuncia a partire, ma Ulisse non temeva la morte piuttosto temeva di non vivere: perpetuo navigante della vita non poteva accontentarsi di un orizzonte sempre uguale, né dell’eterno ritorno delle onde, per questo non aveva interesse all’immortalità che la dea gli offriva. “Perché continuare? Che ti importa che l’isola non è quella che cercavi?. Qui mai nulla accade. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre”
Con queste parole Calipso cercava di convincere Odisseo, che continuava inquieto a parlare agli scogli e a sognare la sua Itaca, di fermarsi ad Ogigia, prometteva una pace silenziosa che però era una resa definitiva alla vita, alle passioni. Ulisse, spinto da un doloroso amore per il viaggio della vita non poteva accettare.
“IMMORTALE È CHI NON CONOSCE PIÙ UN DOMANI, CHI ACCETTA L’ORIZZONTE, CHI ACCETTA L’ISTANTE” spiega la dea e lo invita a posare il capo e a tacere.
“IMMORTALE È CHI NON TEME LA MORTE” risponde Ulisse che rifiuta il silenzio, delle passioni e della vita. Non si accontenta di un solo orizzonte, statico e freddo, perché la vita che avrebbe avuto sarebbe stata una sequenza di istanti sempre uguali, senza ambizioni, senza progetti, senza attese. All’orizzonte immutabile Odisseo preferisce il brivido dell’imprevisto, alla calma piatta l’avventura, al porto, quieto ma passivo, la navigazione, anche se tempestosa.
È l’eterno dilemma di sempre: davanti a noi abbiamo due possibili scelte di vita: un’esistenza fatta di tempo alienato o una vita di cui ci riappropriamo in ogni istante, la bonaccia immobile o la dinamicità di una ricerca costante del senso della vita e del nostro essere al mondo. Scegliere quest’ultima possibilità è scegliere il rischio di una navigazione non sempre sicura ma inevitabilmente affascinante che spinge a guardare avanti verso un orizzonte in divenire, che sconfigge la noia e non si appaga del ritorno delle onde.
La scelta proposta da Calipso è un’elegia che sa di morte immortale, Calipso stessa è nulla, un’ombra e lo sa bene, la scelta di Odisseo, invece, è una scelta di percorsi avventurosi verso una meta d’amore scolpita nel suo cuore.
“Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. È un lungo sonno cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno… Temo il risveglio… se tu vai via è il risveglio … Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento… ma da quando sei giunto hai portato un’altra isola in te” Sono le tristi riflessioni di Calipso.
“… Io non posso accettare e tacere… quello che cerco l’ho nel cuore, come te” sono le ultime parole di Odisseo.
Per l’eroe la vita non merita di essere conservata in un mare di bonaccia che la sfianca e l’opprime. Ciò che conta è lo slancio vitale, l’impegno costante della ricerca. Per tutto questo Ulisse rifiuta il “per sempre” mentre Calipso sarà condannata ad una infelice immortalità su un’isola dove mai nulla accadeva, dove ogni istante era un inutile ritorno del niente.
E allora ai dormienti o ai semidesti del nostro tempo perlopiù giovani, annoiati e rancorosi, violenti e digitatori irriverenti, eternamente insoddisfatti, auguro un’Itaca e tanto entusiasmo per raggiungerla, l’unico oppiaceo capace di dare una vera felicità.
Avere un’Itaca nella propria vita, per cui vivere e morire, dà valore al nostro essere al mondo, perché in fondo è solo un’Itaca che ci spinge a “viaggiare” come naviganti della vita senza paura, perché è solo la passione per Itaca che ci fa accettare il fascino e l’ebrezza del rischio di un naufragio, è solo Itaca la nostra ragione di vita.