Quando Crise, sacerdote del dio Apollo, portando con sé un ricco riscatto, chiese ad Agamennone la restituzione della figlia Criseide divenuta bottino di guerra degli Achei, il condottiero greco rifiutò di esaudirne le preghiere e per di più aggiunse che la fanciulla era sua schiava e con lei avrebbe condiviso il proprio letto. Da ciò la decisa reazione del sacerdote che supplicò Apollo di vendicare l’offesa diffondendo una pestilenza nel campo nemico come punizione per il torto commesso da Agamennone. Contro Agamennone si scagliò Achille e di qui la sua «ira funesta»:
Cantami, o Diva, del pelide Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei…
Sì, poiché Apollo, per quanto subìto dal suo sacerdote scese dall’Olimpo scagliando i dardi della pestilenza che seminò la morte nell’accampamento greco: dapprima ne furono vittima gli animali e poi le persone. È il racconto che ne fa Omero nel quale la rapidità della diffusione è simboleggiata dall’immagine dei dardi scoccati dal dio. Chissà che non si ritrovi qualcosa di analogo circa l’origine e la diffusione dell’attuale “nostra” pandemia.
Quello di Omero è un racconto dettagliato che si ricorda dai banchi di scuola; questi che qui si riportano sono invece dei versi davvero particolari che pure ha per oggetto specifico la peste diffusasi nell’accampamento greco:
LA PESTE
La piana tra i veli di candida alba di già macerata
portava i colori del lutto macchiata di peste,
compagna al destino superno di Mani saettanti,
e in copia piegava le facce alle file battute.
Di lei si prese coscienza e si seppe la fonte
che tutto conforme del vero ci rivelava Calcante.
Si tratta di un componimento dalla versificazione alquanto difficile (ne è autore Leo Nannipieri) e che, a un esame attento, è capace di restituire una seconda lettura del tutto diversa da quella più immediatamente percepibile.
Sì, perché, se da un lato si dice della peste, dall’altro lato un altro senso rinvia alla carta carbone; per meglio sincerarsene, se ne offre una completa lettura in chiaro, ed è forte la sorpresa che irrompe nel riconoscere e comprendere tutti i passaggi e le particolari ambiguità racchiuse in quei versi.
La superficie piana (della carta carbone), posta tra i bianchi fogli della carta velina proveniente dal processo di macerazione, mostrava tracce di colore nero e, unita nel destino (la destinazione) delle mani che colpiscono dall’alto, nella copiatura piegava i fogli pronti ad accogliere le battute dei tasti posti in fila. Attraverso di essa si poté leggere la copia e si conobbe la fonte (la “fonte”, cioè il carattere tipografico) che proprio essa, la “carta calcante” (com’è anche detta la carta carbone), è solita rivelare in maniera conforme all’originale.