L’estate con il covid. Una estate diversa da quelle cui eravamo abituati. Un’estate più povera. Si parte molto meno, solo il 70% prevede di concedersi una pausa (era l’89% nel 2019). Il 17% ha rinunciato proprio a causa della pandemia, il 78% per le regole poco chiare, il 77 per la paura di ammalarsi. Poi ci sono i soldi: ne circolano pochi e si teme che ancor più pochi ne circoleranno in futuro. La necessità di risparmiare in previsione di periodi difficili fa restare a casa il 77% degli italiani e le difficoltà economiche insorte proprio per il lockdown il 70%.
Per il turismo è una tragedia. Le città d’arte sono vuote, mare e montagna soffrono. Ma qual cosina si muove. I dati offerti dalla piattaforma di Airbnb — il più grande operatore del settore, che l’anno scorso ha fatto viaggiare 11,5 milioni di persone nel Belpaese — lasciano sperare in una lenta e faticosa ripresa, anche grazie alla riapertura delle frontiere con i Paesi dell’Unione Europea, dal 3 giugno, con una crescita delle prenotazioni. Lo confermano anche i dati provenienti dal panel che la rivista Altroconsumo ha organizzato con il noto operatore e con la polizia postale italiana, per discutere di prospettive e rischi del mercato: tra questi ultimi, in particolare, le truffe online ai danni di chi cerca l’affare per le vacanze estive 2020; il boom delle frodi ha toccato nei mesi della quarantena un più 167% (28 mila segnalazioni contro le 10.480 di marzo-maggio 2019, dati Polizia Postale).
Nel post pandemia il 62% degli italiani che parte vuole la casa indipendente, “ritenuta la miglior soluzione perché assecondano la psicologia del distanziamento sociale anti contagio, uno dei temi forti dell’estate 2020”. Case che magari abbiano la piscina: una caratteristica che, nei filtri di ricerca, ha superato quest’anno anche il wi-fi e cresciuta di 6 volte rispetto agli anni precedenti. L’82% degli italiani resterà comunque nello stivale contro il 55% dello scorso anno. Inoltre la diffusione dello smart working , che offre la possibilità di lavorare a casa – magari una casa in affitto fuori città – e la difficoltà di gestire i figli con i centri estivi chiusi, fanno scegliere un periodo più lungo del solito. Il 66% delle ricerche su portali come Airbnb riguarda soggiorni di durata superiore ad una settimana. Nel 2019 era il 32%. Sempre la paura del covid fa si che ci si sposti con l’auto privata: il 55% del 2019 diventa il 71 quest’anno.
Si torna alle vacanze anni 50/60?
Partenza in auto, vacanze in appartamenti. Torniamo agli anni 50- 60? Non proprio. A questo punto più che le analisi socio-economiche, valgono i ricordi di chi ha più di 40 anni. Negli anni ’50 solo il 13% della popolazione italiana andava in vacanza mentre negli anni ’60, con il boom economico, si è passati al 20%.
Sono gli anni delle gite fuori porta e il cibo proviene rigorosamente dalle cucine di casa: unico lusso è il gelato. Negli anni 50 ne mangiavamo pochissimo, circa due etti e mezzo a testa all’anno. Bisogna arrivare agli anni 70 per un consumo di massa, ma solo nei mesi più caldi e in spiaggia. I bambini correvano a chiedere le 150 lire per il ghiacciolo o imploravano un cono, richiamati dai disegni di Jacovitti sui cartelloni di Eldorado (il mitico «Camillino» o il «Moreno» di CoccoBill) .
La villeggiatura degli anni 50 cominciava con il treno (e a volte proseguiva con la corriera se il posto non aveva stazioni). Solo i più ricchi potevano permettersi la prima classe, gli altri andavano in seconda o anche in terza (abolita nel 1956). Nelle stazioni c’erano i facchini che aiutavano le famiglie a caricare e scaricare le montagne di bagagli. Perché i bagagli, non si sa perché, erano sempre tanti.
Gli operai emigrati al Nord industriale, tra i poveri, erano i più fortunati: tornavano al paese d’origine. Erano ospitati dai nonni e dai parenti e si stipavano nelle case magari dormendo in tre nel lettone. Per i bambini era una pacchia ruzzolare nelle camere affollate con i cuginetti. Abituati alle città, potevano finalmente correre e saltare, giocare con gli animali. Al mare si andava dal mattino alla sera, con pane e frittata. Un classico per il pranzo. Chi poteva, si spingeva fino alle melanzane alla parmigiana o alla pasta al forno.
L’aria di mare fa bene e fa passare un inverno migliore, si diceva. Ma per il ragazzino il mare era un mare di “non si deve”. Non si deve stare senza cappello, non si deve restare troppo al sole se no ti scotti, non si deve restare con il costume bagnato perché fa male, non si deve correre.
E poi la Regola con la R maiuscola, immutabile e immarcescibile, valida per l’operaio come per il borghese e persino per il nobile. La sacra Regola delle tre ore: non si può fare il bagno se non sono passate tre ore dal pranzo, qualsiasi cosa si sia mangiata. Le mamme vigilano, sui bambini e occhiutamente sulle figlie adolescenti. Quello sguardo troppo lungo del bagnino o del vicino d’ombrellone proprio non va. Meglio rimandarle a casa con una scusa qualsiasi. Del resto, negli anni 50 i costumi da bagno erano castigati: rigorosamente interi, solo le più audaci azzardavano il bikini – che, intendiamoci , copriva la pancia e scendeva oltre l’inguine. Comunque era notato, eccome se sera notato, da tutti gli esseri di sesso maschile presenti sulla spiaggia. Era motivo di riprovazione, tanto che la polizia compiva regolari ispezioni per multare le bagnanti che lo indossavano (Marta Boneschi : Poveri ma belli). Inoltre, la ragazza per bene il costume lo tiene giusto il tempo di fare il bagno. Poi si riveste: ecco il mitico prendisole o lo chemisier ormai scomparsi dai nostri lidi. Ma la ragazza per bene, meno mostra di sé, meglio è (Marta Boneschi). Unica libertà: in vacanza le donne potevano portare i pantaloni, tassativamente vietati in città. E la benedizione viene addirittura da Donna Letizia, massima autorità italiana sul piano del buon gusto che tiene una rubrica – “Saper vivere” – sul settimanale Grazia.
Il viaggio in treno per il mare o la campagna, durava un’eternità anche se la meta era vicina. I convogli si fermavano alle stazioni di tutti i paesi e in ognuna arrivava l’omino con il carrettino che gridava “gelati, bibite fresche, caramelle” ecc. ed era una impresa fermare i bambini che sempre avrebbero voluto comprare qualcosa. Ma eravamo ancora un popolo povero e parco. Al massimo, si concedeva uno sfizio alla prima fermata. Poi, basta, fine. E non c’era ancora la Coca Cola, le bibite erano la cedrata, l’orzata, la limonata. Il gelato era concesso con parsimonia.
Altra regola ineludibile era la purga, Limonata Roger, Dolce Euchessina, Magnesia Bisurata Aromatic: quando si cambia aria si deve prendere la purga per purificare l’intestino (da cosa, poi, non si sa). Dovevano farlo tutti anche quelli che magari avevano la colite e proprio non ne sentivano il bisogno. Se non era la mamma ad imporlo, c’era sempre una nonna o una zia.
Alla sera i ragazzini stramazzavano stremati nel letto. Gli adulti respiravano di sollievo. Al cinema si andava al più una volta a settimana, la televisione – arriva nel 1954 – l’avevano in pochissimi. Gli uomini giocavano a carte nel bar del paese o a bocce, le donne stavano a godersi il fresco fuori di casa e facevano pettegolezzi (questi, però, non sono mai tramontati).
Per chi non aveva paesi d’origine o parenti in campagna e non aveva soldi, la vacanza restava un sogno. Si resta in città e tutt’al più si mandano i ragazzini in colonia. Le grandi aziende si facevano un vanto di avere un buon welfare e in esso non mancava mai la colonia per i figli dei dipendenti, che a volte imbarcavano anche i bambini dei non dipendenti.
Per i benestanti, o addirittura ricchi, la vacanza poteva diventare villeggiatura. Trascorrere in campagna quei periodi dell’anno in cui il clima afoso sconsigliava di restare in città è sempre stato, fin dal tempo degli antichi romani, prerogativa delle élite. Non a caso la parola villeggiatura deriva da villa, dove si spostava la nobiltà. Dalla metà dell’800 diventa una pratica diffusa anche dei ceti emergenti: commercianti, banchieri, liberi professionisti. Loro però, nelle zone collinari o marine, avevano i villini, non le Ville.
Negli anni 50 del 900 la categoria si allarga anche agli impiegati di alto livello, come ad esempio, gli insegnanti che allora erano ben pagati e gratificati da buona considerazione. Le vacanze per certe famiglie cominciavano a giugno e finivano a settembre. I più affittavano una casa, una villa o un villino. Spesso prenotando da un anno all’altro, altre volte con un telegramma dopo una accurata ispezione dell’abitazione. La casa di città veniva accuratamente pulita, si mettevano i lenzuoli sui divani, ci si raccomandava al portiere – previa mancia – di dare l’acqua alle piante. Mete preferite: Versilia e Costa Romagnola. Pochi i viaggi all’estero, solo per i ricchi ricchi.
La vita di queste villeggiature, per forza di cose, era più dinamica. Valeva sempre la regola delle tre ore e quella della purga, ma con più soldi in tasca c’erano più opportunità. Si formavano le comitive e si andava in giro sul pedalò. I più piccoli andavano anche sulle giostre e i cinema erano arene all’aperto. I più grandicelli si avventuravano nei dancing, antesignani della discoteca. Ma ci si andava alle 9 di sera, con mamma e papà seduti nel bar vicino o di fronte, che – facendo finta di niente – controllavano cosa succedeva. La libertà delle vacanze non può mica diventare licenza! Capitava anche che gli stessi genitori facessero un salto nel dancing, così, per divertirsi un po’: “siamo stati giovani anche noi” (e magari avevano 40 anni). Il bar era anche il ritrovo dei giovani e giovanissimi ma non si chiamava happy hours o movida e soprattutto non ci si ubriacava già dalle 19.
A mano a mano che il decennio dei 50 avanza, le vacanze cominciano a perdere le rigide distinzioni di classe . E’ ancora la Riviera Adriatica la più gettonata, perché storicamente la più a buon mercato. Nel ’51 ci vanno 3 milioni di turisti che diventano 4 nel ’54 e crescono per tutto il decennio. Per chi arriva dal Nord industriale, meta preferita – sono già cominciati gli anni ’60 – è la Liguria. Una pensioncina o una camera ammobiliata, se si può addirittura un appartamento. I prezzi sono ancora onesti e accessibili, ma ci si deve accontentare di una località deturpata dal cemento, che in Liguria ha fatto veri e propri scempi. E magari di un mare non proprio pulito.
La vacanza in automobile
Ma quello che cambia veramente il turismo del ceto medio è l’arrivo dell’automobile. C’è già il boom economico e la Fiat lo sa. Nel ’55 la 600 e nel ’57 la 500, le macchine a portata di tutti che permettono agli italiani di viaggiare . Non va sottovalutato anche il fatto che scende il prezzo della millecento e anche la mitica “Giulietta” dell’Alfa Romeo (Guido Crainz Storia del miracolo italiano). E allora basta con le defatiganti corvées in treno, le spedizioni dei bauli, la rincorsa del facchino che alla stazione d’arrivo marcia sempre a passo più spedito del turista di turno. Basta con le colazioni al sacco sui sedili di seconda classe.
Oddio, le corvées c’erano comunque. Si partiva all’alba o addirittura di notte: l’aria condizionata nelle macchine non c’era. Poi c’era il rito dei bagagli. Il vano apposito è già colmo, con l’abitacolo riempito dalla famiglia (la signora sempre davanti, ma se c’è una suocera il posto vicino al guidatore tocca a lei, raccomanda Donna Letizia): è necessario il portabagagli sopra l’autovettura. Nulla a che vedere con il box sul tettuccio di oggi, che sembra una bara ma è oggettivamente più comodo del sistema di allora. Una vera e propria tortura.
Tolto il cellophane che lo aveva avvolto per tutto l’anno, il portapacchi veniva appoggiato sul tetto con accortezza (si dovessero fare dei graffi!) e poi si passava ad impilare le valigie, che dovevano essere trattenute dalle corde elastiche. E qui veniva il bello: in due, uno da una parte e uno dall’altra ci si passava la stramaledetta corda che regolarmente si impennava e andava a finire sulla faccia di quello dell’altra parte. Un graffio e un bozzo sulla fronte, comunque, erano sempre meglio che rigare la carrozzeria.
E via si parte. Quando si arrivava in prossimità dell’autostrada, già ci si sentiva in vacanza. Ma, dato che le ferie erano sempre di agosto perché tutto chiudeva e la città restava vuota, al casello erano dolori: file interminabili (a dire il vero ci sono ancora oggi, vedi quello che succede a Genova) e non esisteva il telepass. Così come non esisteva l’airbag, al massimo ad una brusca frenata mamma o nonno stringevano a se i bambini, che spesso erano seduti in braccio, alla faccia dei seggiolini obbligatori di oggi.
I bambini, dato che non c’era né lo smartphone né il tablet, dormivano o leggevano Topolino, oppure rompevano le scatole a tutta la famiglia. Ma non sempre la meta da raggiungere era servita dall’autostrada. Dunque ci si inerpicava su strade statali o provinciali, curve e controcurve che puntualmente provocavano a qualcuno una bella nausea (in genere, chissà perché erano le bambine: sarà ancora oggi così?). E allora ci si fermava, si aspettava che il malcapitato vomitasse e si ripartiva. Del navigatore, neanche a parlarne ed era possibile sbagliare strada. Discussioni all’infinito all’interno della vettura con il guidatore – il Maschio di casa – che si rifiuta di chiedere indicazioni al passante: “so io dove andare”.
Sulle strade italiane le automobili passano dalle 700 mila del 1954 ai quasi 5 milioni di dieci anni dopo (Guido Crainz: Storia del miracolo italiano). E oggettivamente rappresentano per gli italiani una maggiore libertà. Non è più obbligatorio stare fermi sempre nello stesso posto fino al ritorno a scuola, che allora era a ottobre. Si possono fare gite nei dintorni.
Tutto si accorcia per la velocità che l’auto consente. La meta preferita diventa decisamente il mare negli anni ’60. Lo testimoniano le canzoni e c’è chi le ricorda ancora. E’ del 1961 Legata ad un granello di sabbia di Nico Fidenco cui seguiranno Una rotonda sul mare di Fred Bongusto, Pinne fucile ed occhiali , Abbronzatissima e Il Peperone di Edoardo Vianello, Stessa spiaggia stesso mare di Piero Focaccia fino ad arrivare all’intramontabile Sapore di sale di Gino Paoli che ancora oggi è simbolo di mare e vacanze (chi scrive l’ha sentita cantare nel luglio scorso da tre ragazzine dodicenni).
Luogo iconico è la terrazza sul mare (“Una rotonda sul mare, il nostro disco che suona”, Fred Bongusto nel 1963), quella dello stabilimento scelto – ovviamente – dai genitori. Lontani da loro che sono accasciati sotto l’ombrellone, i ragazzi stanno davanti al juke box, si lanciano sguardi significativi e nascono i flirt. 100 lire tre canzoni, anche quelle straniere: sono arrivati i Beatles. Certo, in tempi di Spotify tutto è a portata d’orecchio, ma all’epoca la vera rivoluzione era il mangiadischi che permetteva di ballare ovunque, anche in spiaggia.
La sera quelle stesse terrazze si trasformavano. Lampadine sospese ai fili e le luci del lungomare riflesse sull’acqua creavano un’atmosfera magica. Venivano anche i genitori a ballare, magari un po’ in disparte perché i giovani non volevano i “matusa” (ah, chi lo dice più?) ma anche a loro piaceva il cha cha cha e l’ully gully.
Anni ’60 qualcosa sta cambiando…
Siamo ancora lontani dagli hippies sessantottini, dalle moto che ruggiscono sulle sterminate strade americane (vedi Easy Rider), dalle barbe lunghe e dalle chiome ancor più lunghe. I primi anni 60 sono ancora l’epoca del taglio dei capelli per gli uomini in stile militare, delle camicie abbottonate, delle famiglie patriarcali e della morale cattolica. Ma qualcosa sta cambiando.
Si respira rinnovamento nell’aria, nella musica, nelle idee, nella politica. Di questo però ci saremmo accorti solo più tardi. Per ora sicuramente c’è più libertà o quantomeno scioltezza. Una prova? Il boom dei campeggi. Fino a quel momento considerati con una certa perplessità di carattere morale sui campeggiatori – se erano ragazze erano sicuramente straniere, e quindi “facili”. E anche vacanze da poveri. Col tempo però si è imposto come turismo alternativo e ha creato intorno a se un’attività imprenditoriale di non poco conto. Superati gli anni ’50, in quasi tutti i centri turistici sono stati costruiti camping per tende, caravan e camper. “Non è dunque un caso se fra il 1956 e il 1965 il numero degli italiani che si poteva concedere una vacanza aumentò del 100%”, scrivono Paolo Sorcinelli e Fiorenza Tarozzi ne “Il tempo libero”.
Il mare non sempre era pulito e nessuno ci faceva caso. Non esistevano Bandiere Blu né monitoraggi delle acque. Chi conosceva la parola ecologia? Non si sapeva nemmeno cosa fosse. Bastava la presenza finalmente reale del mare, sporco o pulito che fosse, agognato e rimpianto per tutto il resto dell’anno in città. Bastava la terrazza e ritrovare la “compagnia” della stagione precedente (“per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare”, 1963) con le sole varianti di qualche defezione o di un nuovo arrivo.
I primi anni 60 sono anni gioiosi, nei quali la gioia di vivere si manifesta soprattutto d’estate. L’emblema è il film di Dino Risi Il sorpasso, fotografia perfetta dello spirito di quei tempi: il benessere individuale, anche con le sue contraddizioni e le sue storture. Poi piano piano comincia il mutamento. E’ il momento dei giovani e sono loro a portarlo a galla. Non solo con l’occupazione delle università o i cortei, ma anche nella musica. Le canzoni parlano ancora di amore, ma ci sono altri temi. E’ il periodo dei cantautori impegnati, dei De André e dei Guccini. Ma anche di Lucio Battisti. Strana, la storia su Battisti. I ragazzi di sinistra, i duri e puri, non potevano assolutamente ammettere di ascoltarlo, figuriamoci di apprezzarlo: Battisti è fascista. Da cosa si fosse dedotto non si capisce bene, forse era solo uno a cui non importava niente della politica. Ma tutti, proprio tutti, sapevamo a memoria le sue canzoni. Le ballavamo nelle feste e compravamo i suoi dischi. La hit parade di quegli anni sta lì a dimostrarcelo. Al mare, poi, era un classico accendere un fuoco sulla spiaggia, mettersi in circolo e con l’amico di turno che sapeva suonare la chitarra, cantare Lucio a squarciagola.
Ma la vera bomba scoppia sul finire del decennio. Nel 1969 Serge Gainsbourg e Jane Birkin cantano Je t’aime moi non plus, la prima canzone a trattare in modo esplicito l’erotismo, con i suoi sospiri e le sue parole, che descrivono l’atto sessuale tra un uomo e una donna, e, con passaggi come «vado e vengo tra le tue reni» («Je vais et je viens entre tes reins»), lascia poco spazio all’immaginazione. E’ già il periodo della liberazione sessuale, quando si diffonde il sesso occasionale, disinibito. La “scopata senza cerniera” la chiamerà nel 1973 la scrittrice americana Erica Jong nel suo libro Paura di volare (30 milioni di copie) salvo poi pentirsene cinquant’anni dopo. Lo scandalo è incommensurabile. Viene vietata in tutti i paesi europei, anche quelli “liberi” come la Svezia e negli Usa, ma la trasmettono Radio Montecarlo e Radio Capodistria che in Italia si prendono benissimo (non c’erano le radio”libere”). Ma nelle località di villeggiatura «Je t’aime… moi non plus» fa il boom: nei juke-box quasi non si sente altro. La Rai la bandisce senza indugi, un pretore ne ordina il sequestro e la distruzione del disco per oscenità. L’ “Osservatore Romano” pubblica articoli al vetriolo e addirittura Paolo VI emette un decreto di scomunica nei confronti del produttore del disco. Facendo così una battage senza pari. Per Gainsbourg una manna: “non avrei potuto trovare un PR più efficace del Papa per pubblicizzare il disco”. E pensare che nel video della canzone i due “peccatori” sono vestitissimi con i cappotti lunghi e maglioni a collo alto, ai piedi della Torre Eiffel.
Alla fin fine sono stati “formidabili quegli anni”, per dirla con Mario Capanna. Forse perché l’Italia era piena di speranze, forse perché si assaporava il sospirato benessere. O forse solo perché chi scrive era tanto più giovane. Ma forse ha ragione Bruno Cortona (l’interprete de Il sorpasso) quando dice al suo compagno di viaggio: “Lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatta… si capisce”.