We are living in a time of paradoxes. Words can take on meanings diametrically opposed to their original ones, without most people realising it. (Viviamo in un’epoca di paradossi. Le parole possono assumere significati diametralmente opposti a quelli originali, senza che la maggior parte delle persone se ne renda conto.)
È la frase con cui Francisco Dias inaugura il suo e blog mette in evidenza come, quando una parola non ha un significato individuato e condiviso all’interno di un contesto, diventa espressione altisonante di un vuoto, può essere usata per riempire il nulla di apparenza. Proprio il contrario di quello che dovrebbe essere: la rappresentazione di una astrazione concettuale insieme a un codice per scambiarsi pareri, impressioni e opinioni.
Nella lingua latina “parola” si diceva nomen e si pensava derivasse dal termine omen che significa destino. Ogni parola contiene la destinazione delle azioni che rappresenta, questo pesavano i nostri antenati. Andò più in profondità l’Imperatore bizantino Giustiniano il quale scrisse che nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono una conseguenza della realtà in cui vengono utilizzati e quindi, il loro significato condiviso, indica la prospettiva verso cui una strategia si compie.
Ho pensato di partire da questo e da una espressione che tutti noi usiamo in continuazione: articoli, conferenze, convegni, libri: “siamo nell’era digitale” e porre una domanda: siamo sicuri di avere tutti chiaro cosa significhi e cosa stia davvero succedendo?
In molto pensano che “digitale” identifichi una tecnologia e questo ha prodotto la maggior parte dei guai nel settore in cui lavoro, perchè ha nascosto la vera essenza del problema e ha frenato opportunità che l’umanità mai prima di adesso aveva avute così grandi e così a portata di mano.
Prima di imbarcarmi in un ragionamento, vorrei anticipare la mia tesi: digitale per me è un ambiente dove:
- le relazioni tra gli uomini e le loro opere raccontano il senso della vita
- le attività più importanti sono di tipo scientifico e umanistico
- la tecnologia è lo strumento con il quale possiamo articolare un linguaggio comune che ci permetta di costruire cultura e conoscenza.
Di conseguenza, quando comincio a lavorare su un audiovisivo, su una mostra, su un museo o su una pubblicazione digitale, mi pongo come obiettivo quello di costruire esperienze cognitive per il mio pubblico, la tecnologia che scelgo di usare è quella che meglio affronta e risolve il problema. Di conseguenza è anche l’ultimo dei miei problemi in ordine di tempo.
Quando invece incontro un cliente o leggo un bando Italiano o Europeo (conosco meno gli altri) che dice di puntare allo stesso obiettivo, mi sento proporre il 3D, oppure il project mapping, o ancora l’augmented reality, tutto prima ancora di avere una idea di come i pensieri dovranno essere articolati e per quale scopo. Ecco un modo infallibile per fuggire la rivoluzione digitale e le sue opportunità a meno che non sia solo un modo per vendere quello che si ha pronto sullo scaffale. A pensare male si fa peccato, ma molto spesso ci si azzecca
L’errore principale sta nel fatto che si confonde il prodotto da realizzare con lo strumento da usare dando per scontato che l’obiettivo sia incluso nella tecnologia perché qualcun altro ci ha pensato per noi. Nel mondo della cultura, dei musei, il turismo è uno di questi, lo scopo non è mai fare un film, un portale, un libro, questi sono solo strumenti intermedi ma è realizzare una esperienza che induca conoscenza.
Il mio primo approccio, quando lavoro, è andare a cercare chi possa fornire le idee senza avere altro da vendere, in modo da costruire insieme un racconto, articolarne le forme, selezionare un linguaggio più idoneo per poi andare a cercare le tecnologie che servano lo scopo.
L’industria creativa ha subito in modo profondo l’impatto dovuto alla rivoluzione digitale. La possibilità di manipolare immagini è enorme e deve essere usata per aprire nuove porte alla forza del racconto che utilizzi un linguaggio sempre più specifico del mezzo e articolato in modo da influire sulla esperienza senza fossilizzarsi nella ricerca dell’effetto suggestivo, privo di logica interna.
Si tratta di opportunità imperdibili per lo sviluppo della conoscenza che rischiano, in assenza di una ricerca, di andare in fumo. Ciascun PC oggi ingloba al suo interno tutto quanto serva a produrre un audiovisivo per intero: video, audio, animazioni, testo, editing, tutto quello che solo 30 anni fa era un palazzo di quattro piani diviso in reparti e studi di sviluppo e stampa oggi e chiuso in un portatile e a disposizione di tutti. Questo fatto dovrebbe poterci portare verso una maggiore gamma di possibilità espressive e di ricerca dei paradigmi del racconto per immagini, un ventaglio ampio di proposte nuove nella poetica audiovisiva. Al contrario, a giudicare da quello che vedo nei portali dedicati, l’industria creativa rischia di adagiarsi sugli schemi che i costruttori dei software propongono come default con la conseguenza di appiattire l’offerta culturale ad un unico segno planetario. Mi è capitato di chiedere agli studenti di editing o di fotografia quale fosse il loro strumento di lavoro. La risposta è stata unanime: il computer. Mi sarei aspettato che uno studente di fotografia rispondesse la luce, o che un montatore rispondesse l’immagine, la storia dell’arte, l’iconologia; senza questi strumenti nella testa di chi lo usa, il computer è incapace, oppure è capace di produrre da solo quello che altri hanno preparato escludendo del tutto la nostra mente. Succede così che dall’Alaska alla Nuova Zelanda si possano amare gli stessi sapori, vedere le stesse sequenze, ascoltare la stessa musica. Una omologazione di senso che contrasta con il significato etimologico della parola cultura. L’etnocentrismo, che Francisco Dias lamenta essere causa di molte distorsioni, di fronte ad una omologazione di senso come quella che si vede in rete, diventa solo una variazione collettiva dell’individualismo sfrenato da un mercato privo dei limiti imposti dall’etica della responsabilità. Io credo che la situazione in cui versa la nostra cultura sia così compromessa che non sia più possibile cercare soluzioni palliative, occorre radicalmente mettere in campo forze culturali nuove, ma soprattutto occorre avere la coscienza di essere malati, prima condizione per poter guarire.
Che la malattia del pianeta sia una conseguenza delle nostre azioni individuali non è una tesi mia, è una tesi di papa Francesco che dall’alto del suo prestigio internazionale sostiene che il primo contributo deve nascere dalle nostre coscienze, di conseguenza, come cittadini, occorre combattere una prima grave malattia morale che è costituita dalla rassegnazione, dalla delega agli altri, dalla rinuncia. Occorre imparare ad agire, organizzare una nuova resistenza contro le forze molto poco oscure che vorrebbero la sopravvivenza del pianeta sottoposta al loro tornaconto costruito sulla rassegnazione. Occorre un rinascimento svegliando chi sia incapace di agire per le spinte contrarie di un mercato diventato ricco grazie alla impotenza indotta negli altri. Si tratta di costruire i cittadini, cambiare la loro mentalità affinché attraverso una presa di coscienza cambino le loro azioni. Questo obiettivo è totalmente immateriale, produce coscienza, senso e nessun oggetto fisico, ma potrebbe avere conseguenze pratiche sulla nostra realtà. Occorre agire sull’uomo e sulle sue capacità cognitive al di là delle tecnologie, delle stesse infrastrutture, delle istituzioni, i requisiti indispensabili per affrontare i problemi causati da uno sviluppo senza progresso saranno il senso di responsabilità e le capacità cognitive adeguate alla sfide.
Occorre una svolta epistemica proprio come come Kuhn avrebbe definito il procedere della scienza. Una delle prime mosse pratiche è quella di oltrepassare l’iperspecializzazione e la multidisciplinarità intesa come somma di specializzazioni non integrate e sostituirla con la capacità di saper osservare il tessuto delle relazioni che determinano la realtà come organismo nel suo complesso. Fu Joël de Rosnay, uno scienziato per molti anni direttore dell’istituto Pasteur, ad aver definito “macroscopio” lo strumento di cui la civiltà dovrà dotarsi per comprendere le ragioni della sua evoluzione ed evitare il collasso non esiste se non nella nostra mente, saper guardare oltre i confini della propria disciplina non è un problema di capacità tecniche, è solo un problema di mentalità. A noi, spesso, manca la mentalità degli esploratori, la loro meta era l’inizio di una nuova conoscenza sempre al di fuori dei propri confini.
Guardare al passato insegna molte cose. C’è stato un tempo in cui si pensava fosse essenziale prendere in considerazione le mutue relazioni tra le cose come capaci di definire la funzione e lo scopo ultimo di qualsiasi sostanza. Un approccio strategico estremamente moderno: passare da una ontologia (l’inventario, esplorazione di ciò che si rivela) alla epistemologia (il modo con cui si conosce, la validità della conoscenza). Lo troviamo descritto in un libro di oltre 2300 anni fa: la Metafisica. Aristotele attribuisce all’avverbio “insieme” un significato che, se diventasse senso comune risolverebbe il problema dell’etnocentrismo cui Francisco Dias faceva riferimento come un male del secolo.
Le relazioni che definiscono l’avverbio trovano, negli anni ’60, una loro espressione matematica nel sistema di equazioni differenziali che Eduard Lorenz, insigne matematico statunitense, elabora con lo scopo di definire le previsioni atmosferiche. Si trova di fronte ad un fenomeno mai osservato prima, una piccola variazione delle condizioni iniziali fa divergere il modello matematico verso risultati imprevedibili. Così è la vita, imprevedibile per via dell’alto numero di interazioni mutue che definiscono l’hic et nunc. Oggi chi non abbia una formazione scientifica, ricorda Lorenz solo per la sua sintesi poetica del battito d’ala di una farfalla in grado di influire su un uragano, pochi immaginano che le sue equazioni sono alla base dei modelli matematici con i quali cerchiamo di prevedere la diffusione del Covid 19 in questi giorni.
Il senso profondo di “insieme” si capisce bene parlando di musica. Ho avuto la fortuna di poterne parlare in occasione di un mio recente lavoro con Salvatore Accardo, uno dei più grandi violinisti contemporanei.
Insieme non significa suonare nella stessa stanza, ma lavorare su se stessi per essere in grado di produrre un suono polifonico che nessuno è in grado di produrre da solo. Non solo questo implica la composizione di frequenze e di timbri diversi che possono provenire solo da strumenti diversi, ma implica la necessità che ciascuno sia indistinguibile e possa contribuire al suono finale che è unico purché prodotto nell’unico modo possibile. Imparare un insieme è uno studio profondo che insegna a non sovrastare gli altri, insegna la forza che può generare un maestro, insegna che nessun solista è mai solo, insegna che a concentrasi sulla emozione che prova il pubblico ed a mettere se stesso in sintonia con gli altri. Insegna ad ascoltare per poter suonare.
Se mi sono dilungato è perchè vorrei chiarire un pensiero: Aristotele, Lorenz, Accardo sono tre eccellenze che appartengono a epoche molto lontane. Non bisogna commettere l’errore di pensare che il primo fosse un esponente della cultura filosofica, il secondo della cultura scientifica e il terzo della cultura musicale, occorre capire invece che i loro strumenti, pur diversi nella sostanza, abbiano dato forme espressive diverse alla stessa cultura.
Spero di aver chiarito questo con gli esempi perchè è un punto fondamentale per comprendere come viaggiare possa significare conoscere nuove forme in cui la cultura si manifesta e confrontarsi per far crescere la propria conoscenza del mondo insieme agli altri, di conseguenza, poter accrescere la conoscenza di se stessi. In questo senso il turismo può divetare un costruttore di cultura e una componente dell’auspicato rinascimento. È urgente un lavoro sull’elemento umano e sulle sue capacità cognitive, concettuali, di astrazione, sulla coscienza critica affinché si costruisca un’etica della responsabilità, una coesione sociale, una collaborazione, la solidarietà.
Mindset
Cambiare la mentalità e generare la coesione sociale orientata allo sviluppo della collettività come organismo unico fu un problema delle popolazioni che vivevano nella attuale territorio della Grecia e della Turchia prima che l’Occidente nascesse. La coesione sociale e l’adesione ai valori fondanti della comunità fu assicurata attraverso la poesia epica che affrontava temi mitologici, storie e racconti di grade forza emozionale intorno ai quali uomini e donne del tempo, sotto l’abile guida di un cantore, costruivano e affinavano gli strumenti mentali per affrontare le vicissitudini e superare ostacoli. Personaggi immaginari, situazioni irreali ma convincenti, una realtà virtuale senza l’uso di computer che contribuiva a creare verità universali a cui tutti i cittadini si attenevano nella loro vita civile.
Successivamente, per una società strutturata in stato, come era quella Ateniese, l’epica si rivelava non più utilizzabile. Le poleis necessitavano di forme maggiormente razionali e di nuovi autori in grado di corrispondere ad struttura mentale diventata estremamente complessa per l’epoca. Anche lo strumento ed il linguaggio dovevano essere modificati, fu inventato il teatro. La prima forma di spettacolo pop che aveva star come Eschilo, Sofocle ed Euripide per costruire la forza di uno stato organizzato e responsabile.
Le forme del racconto hanno cambiato pelle molte volte, alla fine del Rinascimento tutte le muse insieme: le antiche e le nuove che ad esse si erano affiancate, poesia, canto, musica, recitazione, drammaturgia, si sono date appuntamento tutte insieme in Italia per la nascita dell’opera. Le forme della rappresentazione cambiavano ancora e non lo scopo. Le star si chiamavano Mozart, Rossini, Verdi, Puccini, e continuarono ad andare in scena problemi, valori, comportamenti. Una donna che resiste alle molestie sessuali del potere suicidandosi: Tosca; quelle di una donna promessa per forza ad un uomo che non ama: Madame Butterfly; gli intrighi e i sotterfugi per far trionfare il vero amore sul sopruso messi in atto da un barbiere di Siviglia; il popolo correva, applaudiva, lottava. Le opere di Giuseppe Verdi hanno costruito l’Unità d’Italia contro lo straniero occupante più di qualsiasi esercito.
Gli artisti sanno come si influenza una mentalità entrando nelle segrete vie della mente, hanno i loro metodi in grado di stimolare curiosità e interesse, diventando narratori, provocano identificazione, influenzando le azioni future degli spettatori allora come oggi.
Oggi la cultura è in crisi sotto i colpi di un mercato che cerca di isolare gli individui chiudendoli in una prigione senza sbarre, imbrigliando le loro stesse mutue relazioni in un algoritmo che le guidi, le raccolga, e le riproponga in modo che ciascun prigioniero sia felice di essere anche il proprio carceriere. Costruendo per giunta, una narrazione che faccia sentire tutti liberi e creativi resistenti a qualsiasi sforzo mentale tanto tutto viene presentato come facile e accessibile, sempre in nome della democrazia.
Qualche mese fa, uno studente della Sapienza mi ha chiesto cosa fosse per me la creatività. Vi confesso che la domanda non ha una risposta facile e volevo scappare dalle cose scontate o peggio ancora dalle espressioni ambigue e senza un significato deciso. Per fortuna mi sono ricordato di Galileo Galilei e di Isaac Newton.
Per migliaia di anni gli uomini guardarono il cielo, prendevano misure, calcolavano tempi, i movimenti, le orbite.
Così fecero anche loro, guardarono lo stesso cielo e capirono l’essenza stessa della sua dinamica, la riportarono sulla terra e costruirono una teoria valida ancora oggi. Lo capirono guardando lo stesso cielo di sempre, ma con occhi diversi. Ecco allora che mi venne in mente una definizione di creatività che ho trovato utile. Guardare quello che tutti guardano e capire quello che nessuno ancora aveva capito.
Uno dei filosofi che maggiormente hanno ispirato le categorie di analisi dei tempi moderni fu senza dubbio Antonio Gramsci che a proposito della cultura e della necessità impellente che le classi meno abbienti potessero elevare la loro posizione sociale nel nuovo stato da lui immaginato senza dittatori scriveva:
In una nuova situazione ….. occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
Che la cultura occidentale sia in una crisi che rischia di essere pericolosamente irreversibile è una dato di fatto. Che questa sia casuale o provocata da una politica che considera la cultura il vero nemico del consenso istintivo e irrazionale è un argomento che, anche se importante, esula da questa sede, in ogni caso la crisi origina dall’aver rinnegato le radici classiche. Nello stesso quaderno Antonio Gramsci scriveva:
Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale.
….Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita
Noi chiamiamo l’uomo “animale sociale” puntando sul fatto che viva in gruppo, insieme ai suoi simili, per sua stessa natura, gli antichi invece lo definivano zoon politikon, un animale politico, l’aggettivo conferisce alla natura dell’uomo la necessità di costruire le regole per la convivenza. La comunità degli umani genera una cultura del vivere insieme e non può essere resa sterile e riportata ad una natura istintiva a meno che il gioco non sia quello di rendere più deboli e vulnerabili i soggetti parte della comunità.
Nascondere quell’aggettivo (politikon) significa comprimere la capacità di partecipazione alla costruzione delle regole comuni, significa poterle imporre senza che nessuno possa rivendicare il primato della democrazia. Forse sono proprio queste regole che danno molto fastidio a chi vorrebbe governare le comunità senza regole o con regole imposte in funzione della convenienza. Ma questa è un’altra storia.