Eugenio Cefis, dai partigiani alla Montedison, gli intrecci della politica, gli affari internazionali, gli intrighi di stato, il potere. La politica nel 1977 ebbe ragione di chi le contrapponeva una logica diversa, Eugenio Cefis fu forse la vittima più illustre dello scontro.
12 ottobre 1944: la breve esperienza della Repubblica dell’Ossola, nata dopo l’occupazione da parte di formazioni partigiane della zona intorno a Domodossola, sta per avere fine.
Alfredo Di Dio, comandante la divisione partigiana Valtoce, compie con un gruppo di partigiani una ricognizione lungo la strada per Cannobio per verificare la veridicità di notizie circa uno spostamento di truppe tedesche in quella zona.
All’improvviso, nelle vicinanze della borgata di Finero il gruppo viene investito da raffiche di mitragliatrici tedesche appostate sulla montagna sovrastante. Di Dio è colpito ad una gamba: muore dissanguato.
Il giorno dopo il suo posto al comando della divisione viene preso dal vicecomandante Alberto, nome di battaglia di Eugenio Cefis, un giovane ufficiale dei granatieri capitato quasi per caso in quella zona e destinato ad animare per molti degli anni a venire la scena politica ed economica italiana, di cui diverrà uno dei personaggi più discussi.
Chi era Eugenio Cefis
Nato il 21 luglio 1921 a Cividale del Friuli, primo di nove figli (il padre è un imprenditore agricolo-immobiliare) Cefis frequenta l’accademia militare di Modena, dove ha come collega Vito Miceli, futuro capo del S.I.D., diviene tenente del II Reggimento Granatieri e viene inviato in Jugoslavia con le truppe di occupazione italiane.
Sembra che in quel periodo collabori con il S.I.M., il servizio segreto militare: comunque del fatto Cefis non fa alcun cenno nelle sue note biografiche (Cefis, La repubblica dell’Ossola).
L’8 settembre si trova a Modena, ufficiale istruttore di tiro presso l’accademia: decide di abbandonare l’esercito, va a Milano e poi a Lesa, sul Lago Maggiore, dove si trova Marcella Righi, la sua futura moglie, appartenente ad una famiglia con un solido patrimonio.
Uno zio della ragazza ha una casa a Zernasco, in Val Vigazzo, vicino al confine svizzero. Cefis si trasferisce nella casa e con altri tre ufficiali inizia quello che nel suo diario indicherà come uno “strano lavoro”.
La Svizzera concede asilo solo a gruppi di militari che hanno lasciato la divisa e non a singoli: Cefis collabora nell’organizzare in gruppi coloro che vogliono varcare clandestinamente il confine.
Il 13 ottobre 1943 sposa Marcella: è lo stesso sacerdote che celebra il matrimonio, Don Federico Mercalli, a metterlo in rapporto con Don Bernini, un prete di Arona in contatto con i partigiani.
Don Bernini gli fa incontrare una vecchia conoscenza di Modena, Alfredo di Dio, che comanda una formazione autonoma dalla quale nasce nel 1944 la divisione partigiana Valtoce.
L’orientamento politico della divisione è vicino a quello dei cattolici: Cefis è monarchico e anticomunista (Turani, Razza padrona, n. 2) in una formazione di cui è commissario politico Aminta Migliari, che è a capo del Servizio informazioni partigiani per il Nord Piemonte.
E’ cosa normale per i capi della brigata – Cefis ne è diventato il vice comandante – il rapporto con i servizi segreti alleati che operano a poche decina di chilometri in territori svizzero.
Il 9 settembre 1944 la divisione Di Dio è la prima ad entrare a Domodossola: è l’inizio della “Repubblica dell’Ossola”, la più nota delle repubbliche partigiane. Dopo la battaglia di Finero Cefis, divenuto il comandante della divisione Valtoce, riesce a sganciarsi dai tedeschi e il 22 ottobre passa il confine ed entra in Svizzera. Viene internato in un campo da dove fugge tre settimane più tardi per rientrare in Italia.
Diventa il capo del Raggruppamento Divisioni Di Dio, che opera in stretta collaborazione con le formazioni autonome dei “fazzoletti verdi”. Prende contatto con i servizi segreti svizzeri oltre che con quelli americani in Svizzera, passa il confine quattro volte e sempre riesce a rientrare fra i suoi uomini. Il suo vicecomandante è Albertino, nome di battaglia del futuro senatore e ministro democristiano Giovanni Marcora.
E’ in quel periodo che conosce Enrico Mattei, allora giovane industriale originario delle Marche, che rappresenta la D.C. nel C.L.N.A.I., è uno dei capi del Corpo volontari per la libertà e svolge funzioni di tesoriere per i “partigiani bianchi”, il cui punto di riferimento è la D.C.
Cefis, Enrico Mattei e l’ENI
Nel 1944 è la formazione di Cefis a far evadere dal carcere di San Donnino, vicino Como, Mattei, salvandogli praticamente la vita. Un anno dopo Mattei diventa Commissario all’AGIP: assume nell’azienda petrolifera di Stato molte persone conosciute tra i partigiani come Walter Andisio, il “colonnello Valerio”, e Pietro Bellini delle Stelle, “Pedro”
Cefis, dopo il 25 aprile 1945, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università Cattolica a Milano ed ha iniziato a lavorare in un’azienda di stampaggio di materie plastiche, la Termoplastica italiana, società di cui poi diverrà azionista e successivamente Presidente.
E’ la prima di una serie di iniziative commerciali, svolte attraverso società intestate ad altre persone, prevalentemente per la vendita di gas metano: alla fine degli anni ’60 i suoi capitali privati, di considerevole entità, saranno concentrati in una cassaforte di famiglia a Vaduz.
Nel 1945 tutto questo appartiene ad una realtà ancora lontana: Cefis viene chiamato da Mattei alla S.N.A.M., una società a capitale pubblico di cui l’A.G.I.P. è uno dei tre azionisti. Diventa uno dei più stretti collaboratori di Mattei, uno dei pochi che lo tratta con il tu. Nel 1953 nasce l’E.N.I., l’Ente nazionale idrocarburi, al quale vengono trasferite tutte le partecipazioni pubbliche nelle società che operano nel settore petrolifero (Agip, Snam, Anic, Rossa).
Mattei diviene presidente dell’Ente. Cefis, che per un breve periodo tra il 1959 e il 1960 sarà anche assistente di Mattei, nel 1954 è vice presidente della S.N.A.M. e dell’A.G.I.P., le due società più importanti del Gruppo E.N.I. Nel 1962 diviene vice direttore generale e poi vice presidente dell’E.N.I., cariche che ricopre nel 1962 quando Mattei muore in un incidente aereo ancora oggi non completamente chiarito.
A Mattei succede nella Presidenza dell’Ente il vice presidente Marcello Boldrini, molto legato a Mattei fin dall’inizio degli anni ’40. Il 26 giugno 1967 Boldrini si fa da parte e Presidente dell’E.N.I. diviene Cefis, che era uscito dall’E.N.I. per dedicarsi alle sue iniziative imprenditoriali.
Per l’Ente è un periodo molto difficile. La politica di espansione seguita fin dall’inizio da Mattei è entrata in crisi anche per la necessità di disporre di crescenti mezzi finanziari.
Anche la lotta contro le grandi società petrolifere straniere per conquistare una quota del mercato petrolifero sembra avere una pausa di arresto: l’E.N.I. ha conseguito, se non tutti, almeno in gran parte i suoi obbiettivi ed è iniziata una politica di riavvicinamento ai “grandi” del mercato petrolifero mondiale, ma occorre consolidare i risultati raggiunti ed assumere nuove iniziative nei settori che stanno dando risultati positivi, come quello del metano.
Altro problema è quello della presenza dell’Ente nei settori diversi da quello petrolifero: attraverso società collegate l’E.N.I. aveva alla morte di Mattei già fatto il suo ingresso nel settore chimico, con la produzione di fertilizzanti, con la costruzione di un moderno impianto per la produzione di gomma sintetica dell’A.N.I.C. a Ravenna e degli stabilimenti di Pisticci nel Basento, e di Gela.
Nel settore nucleare attraverso l’AGIP Nucleare aveva realizzata la centrale nucleare di Latina. Interventi dí salvataggio di aziende in crisi (Pignone, Lanerossi, Monte Amiata, Cotoniere meridionali, Il fabbricone, e molte altre imprese minerarie) avevano portato l’E.N.I. ad operare in settori come quello tessile, minerario, metallurgico e meccanico che avevano tutti scarsi legami con il settore petrolchimico.
La motivazione di questa espansione era stata essenzialmente politica: Mattei era strettamente legato alla D.C., il principale partito di governo, ed in particolare a Fanfani. “La base”, la corrente sostenuta direttamente dall’ENI, fu di fatto abbandonata al suo destino proprio su invito di Fanfani che era contrario alla esistenza nella D.C. di una corrente di sinistra del partito diversa da quella da lui guidata (Briatico).
Ciò non escludeva però buoni rapporti con il P.C.I. ed il P.S.I., partiti in cui Mattei vedeva la sponda necessaria per la sua politica industriale, mirante a costruire nuovi equilibri nel settore delle fonti energetiche contrastando anche, se necessario, la politica centrista della D.C.
Nel 1962, secondo Segni, Mattei controllava 120 deputati, senza distinzioni di partito (Briatico). Il salvataggio di industrie in crisi da parte dell’E.N.I. per mantenere l’occupazione era, in questo contesto, quasi un atto dovuto nei confronti di un Governo che, al di là delle consonanze politiche, doveva essere necessariamente “amico” in quanto da esso dipendevano gli incrementi, sempre più necessari, del fondo di dotazione dell’Ente: ne conseguivano però pesanti aggravi finanziari a carico dell’Ente stesso.
Cefis conosceva molto bene la situazione dell’Ente quando nel 1967 ne assunse la presidenza su sollecitazione di Moro, Presidente del Consiglio di un governo di centro sinistra, e di Fanfani, con cui Cefis aveva uno stretto rapporto e che, oltre ad essere Ministro degli esteri di quel governo, era anche il capo riconosciuto della più forte corrente di sinistra della D.C.
La preoccupazione era che la pesante situazione finanziaria dell’E.N.I. potesse costituire una spinta alla privatizzazione dell’Ente, auspicata da molti e potenti imprenditori privati.
A suscitare il loro allarme non erano tanto le attività dell’E.N.I. nel settore petrolifero o in quello manifatturiero, quanto le iniziative assunte e quelle in programma nel settore chimico, dove operavano già la Montecatini e la Snia Viscosa, che aveva incorporato la B.P.D., e si andavano espandendo la S.I.R. di Nino Rovelli, che nel 1968 incorpora la Rumianca e la Liguigas di Raffaele Ursini, tutte società con forti legami con alcuni settori della D.C.
Cefis ed il cambio di politica industriale all’ENI
Cefis mostrò subito chiaramente di voler introdurre profonde modifiche nella politica seguita fino a quel momento dall’E.N.I. e di voler puntare al risanamento finanziario. Negoziato un accordo con la Esso, che era la compagnia petrolifera straniera con la quale l’E.N.I. aveva il maggiore contenzioso, tamponati i problemi finanziari più urgenti, il nuovo presidente già nella relazione al bilancio per il 1966, diffusa nel 1967, indicò quale sarebbe stata la nuova strategia dell’Ente: espansione nel settore chimico, con funzione di centro propulsore, nel quadro dí una programmazione economica che assegnasse un ruolo di punta nella sua attuazione all’impresa pubblica, con l’attribuzione tra l’altro all’E.N.I. della esclusività della produzione acquisita in Italia e all’estero, del trasporto e della distribuzione del metano.
In sintesi, la linea di Cefis era molto semplice: porre l’industria pubblica sullo stesso piano di quella privata, con una delimitazione dei rispettivi spazi nella programmazione economica, che era la grande novità della seconda metà degli anni ’60.
Anche i rapporti con partiti e uomini politici, nella strategia di Cefis, erano destinati a mutare: con la sua propensione alla tecnocrazia in nome di una dichiarata sfiducia per la politica (Briatico) Cefis escludeva un rapporto di sudditanza con i partiti: il potere non doveva avere un volto politico, se non richiesto o necessario.
Mutarono anche i rapporti con la D.C. e i partiti di sinistra, mentre proseguiva il loro finanziamento occulto da parte dell’Ente, con modalità che Cefis indicò dettagliatamente nel 1993 al sostituto procuratore Dall’Osso del Tribunale di Milano.
Lo scontro ENI – Montedison
La scelta di rafforzare la presenza dell’Ente nel settore chimico si dimostrò presto di importanza capitale per gli equilibri del sistema industriale del Paese in quanto poneva l’E.N.I. in rotta di collisione con la Montedison, società nata dalla fusione tra la Montecatini e la Edison, che insieme con la Fiat costituiva una roccaforte dell’imprenditoria privata italiana non solo per la potenzialità economica della società (205 società, 128.000 dipendenti, 400.000 azionisti, 1.758 miliardi di capitale versato, al sedicesimo posto per importanza nella graduatoria mondiale delle società non statunitensi) ma anche per i rapporti, in termini di partecipazioni azionarie, che essa aveva con i principali gruppi industriali e finanziari de Paese.
Cefis non mostrò di farsi alcuna illusione sulle possibilità di un accordo E.N.I. – Montedison: migliorò i rapporti con l’I.R.I. che deteneva direttamente o indirettamente, attraverso le banche controllate, un cospicuo pacchetto azionario della Montedison (circa il 7 per cento) e, con l’assenso del Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, mise in atto una segretissima strategia (ne erano a conoscenza solo pochissime persone e le azioni necessarie furono acquistate attraverso agenti di borsa), per arrivare al controllo della Montedison da parte dell’ industria pubblica (E.N.I. e I.R.I.). Nel perseguimento di questo obbiettivo, impensabile solo alcuni anni prima, e che poneva l’E.N.I. obiettivamente in rotta di collisione con i gruppi chimici privati, Cefis era favorito da una situazione di grande debolezza della Montedison che aveva avuto negli ultimi anni una complessa e travagliata storia.
Alla metà degli anni ’60 la Montecatini, da cui la Montedison traeva origine, era una società decisamente in crisi: entrata nella chimica negli anni tra il 1913 e il 1914, si era successivamente sviluppata anche in altri settori, come quello delle fibre artificiali con la società francese Rhone Poulenc, con la quale costituì la Rhodiaceta, della farmaceutica, con la società Farmitalia, degli esplosivi, dei coloranti e dell’alluminio.
Nel dopoguerra la società, di cui lo Stato attraverso l’I.R.I. direttamente o indirettamente possedeva una notevole quota (nel 1962, il 7,30 per cento) del capitale azionario, non aveva proceduto ad una modernizzazione degli impianti concentrandosi nella chimica di base ed in particolare sui fertilizzanti.
Alla fine del 1965 fu decisa la sua fusione con la Edison che disponeva di cospicui capitali (circa 400 miliardi) derivanti dagli indennizzi ricevuti in seguito alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, prodotta dalla Società in regime di oligopolio.
La Edison aveva scelto di utilizzare quei capitali per rafforzare la sua presenza nella chimica (dove già operava con la Sincat, l’Acsa, la Sicedison, per citare solo le società più importanti) e, allo stesso tempo, di essere presente nei settori più diversi dell’economia nazionale, come la siderurgia, la metalmeccanica, l’elettronica, il tessile, l’abbigliamento, l’alimentare, fino ad arrivare, con la Standa, ad operare nel settore della grande distribuzione e ad acquisire una importante società dì produzione cinematografica.
Al momento della fusione con la Montecatini, la Società non aveva però raggiunto una soddisfacente redditività del capitale, mentre disponeva ancora di ingenti fondi da investire, al contrario della Montecatini, che stentava a trovare un equilibrio finanziario, con pesanti perdite nei settori diversi da quello delle fibre e da quello farmaceutico.
La fusione apparve la strada migliore per supplire alle carenze finanziarie della Montecatini con le disponibilità inutilizzate della Edison, che avrebbe in cambio potuto fruire della esperienza della Montecatini nel settore chimico. Il progetto ebbe il consenso dell’I.R.I., che era fra gli azionisti della società, e della Banca d’Italia, oltre che di Mediobanca, di cui era stata richiesta la consulenza finanziaria: si trattava di realizzare un gruppo chimico che avesse le dimensioni comparabili con quelle dei gruppi internazionali concorrenti, che proprio in quel periodo andavano attuando una politica di concentrazioni (Ciba e Geigy in Svizzera; Basf, Bayer e Hoechst in Germania).
La concentrazione delle due società italiane, con il nome di Montecatini – Edison prima e poi dal 1970 di Montedison, non diede tuttavia i risultati sperati. Alla fine degli anni ’60 tutta l’industria italiana era afflitta da grandi problemi: la dimensione delle imprese era troppo piccola per fronteggiare la concorrenza dei colossi internazionali, la capacità di autofinanziamento era bassa, anche perchè i salari tendevano a salire, la diversificazione industriale era molto limitata.
La Montedison in particolare entrò in crisi anche per la sua debolezza proprio nel settore chimico, che avrebbe dovuto costituire la parte più qualificante della sua attività, mentre veniva meno la collaborazione con le grandi società straniere che operavano nel settore petrolchimico, compresa la Shell.
Montedison e l’intreccio di potere tra pubblico e privato
A queste difficoltà economiche se ne aggiungevano altre derivanti dal quadro politico italiano. il vecchio gruppo dirigente della Edison aveva mantenuto la sua ostilità nei confronti delle forze politiche che avevano premuto per la nazionalizzazione dell’industria elettrica. La durezza dello scontro Montedison E.N.I. era alimentata anche dalla importanza che Montedison rivestiva per l’industria privata. I maggiori gruppi industriali e finanziari privati italiani avevano partecipazioni azionarie nella società, che a sua volta, in un intreccio inestricabile, possedeva quote del loro capitale azionario: il controllo della Montedison poteva determinare lo spostamento della linea di confine tra pubblico e privato nell’economia italiana.
La decisione del governo (1968) di autorizzare l’I.R.I. e soprattutto l’E.N.I., ad acquistare in borsa azioni Montedison per modificare la politica della società ritenuta troppo aggressiva nei confronti dell’E.N.I. nel settore chimico, suscitò vasti malumori negli industriali italiani, primo fra tutti Agnelli, che (Scalfari e Turani, pag. 168) ritenne “violato il confine tra l’industria pubblica e quella privata”.
A novembre 1968 si formò un sindacato di controllo della Società, con il 49 per cento ciascuno agli azionisti pubblici e privati e il 2 per cento a Mediobanca in funzione di una mediazione (praticamente impossibile) tra le due parti contrapposte. Giorgio Valerio restò Presidente della Società, ma con poteri molto limitati: si fece invece sentire la presenza condizionante nel sindacato dì controllo dell’E.N.I., il cui vice presidente Raffaele Girotti andò a far parte del consiglio di amministrazione della Montedison. Cefis aveva vinto una battaglia ma non la guerra: Montedison restava ancora una società nell’ambito dell’industria privata.
Ad essere perdente era il gruppo dirigente della Montedison che faceva capo a Giorgio Valerio, ex presidente della società. I tentativi del gruppo di contestare, anche avvalendosi di associazioni di piccoli azionisti appoggiati dal settimanale “Candido” di Giorgio Pisanò, l’ingresso dell’E.N.I. in Montedison furono sventati dall’E.N.I. attraverso accordi segreti con i responsabili delle associazioni. Due di essi divennero consiglieri di amministrazione di Montedison: era una guerra combattuta con tutti i mezzi, senza troppe preoccupazioni etiche.
Nel 1969, con la firma dell’accordo con l’U.R.S.S. per la costruzione del metanodotto dalla Russia all’Italia, l’E.N.I. di Cefis conseguì un successo di grande rilevanza internazionale. Montedison continuava invece a trovarsi nelle solite difficoltà.
Nel 1970 presidente della Montedison divenne il senatore a vita Cesare Merzagora, già presidente del Senato, esponente della Democrazia Cristiana ma con solidi legami con la finanza laica, che tentò di bloccare l’avanzata dell’E.N.I. Il tentativo fallì, anche per lo scarso entusiasmo dimostrato dalla finanza privata per nuovi investimenti nel capitale della società e per la constatata impossibilità di raggiungere un accordo Montedison — E.N.I. a proposito dei rispettivi campi di intervento nel settore chimico, Merzagora traendo anche spunto dall’emergere dei “fondi neri” usati dalla società negli anni precedenti, si dimise e la Presidenza fu affidata a Pietro Campilli, democristiano, più volte ministro.
La nomina di Campilli nella strategia di Cefis, nominato nel 1970 cavaliere del lavoro, aveva carattere interlocutorio: il suo obbiettivo era di assumere il controllo della Montedison e di diventarne Presidente. Il conseguimento di questo fine presupponeva però il mantenere saldamente il controllo dell’E.N.I., che egli avrebbe dovuto necessariamente abbandonare. Il primo atto fu la nomina di Raffaele Girotti alla Presidenza dell’E.N.I., vincendo le resistenze del PSI, che insisteva per la nomina a quella carica di Giorgio Ruffolo. Girotti, anche lui democristiano, vice presidente della Montedison in cui rappresentava l’E.N.I., da anni era legato a Cefis: era una garanzia piena per il Presidente dell’Ente. Il passo successivo fu determinare Campilli alle dimissioni dalla Presidenza di Montedison, ciò che avvenne dando vita da parte di Girotti ad una polemica giornalistica con Campilli, in seguito alla quale quest’ultimo si dimise.
Eugenio Cefis finalmente a capo della Montedison, grazie a Cuccia
Era il momento che Cefis attendeva da tempo: Carli, Governatore della Banca d’Italia, d’intesa con Cuccia, amministratore delegato di Mediobanca, banca d’affari al centro del sistema finanziario italiano, fece il nome di Cefis quale nuovo Presidente, ed il sindacato di controllo della società, il 22 aprile 1971, decise la nomina.
Restava il nodo del sindacato di controllo: E.N.I. ed I.R.I. non avevano la quota del pacchetto azionario della Montedison necessaria per controllare la società. Cefis riuscì ad ottenere dagli altri soci che nel nuovo sindacato di controllo gli azionisti pubblici e quelli privati avessero una rappresentanza paritetica anche se dovette accettare che tra gli azionisti privati rappresentati vi fossero due misteriose società – la Nicofico e la Euroamerican – possedute secondo alcuni da Rovelli, Presidente della S.I.R. ed avversario storico di Cefis (tepore Dubois), e secondo altri dalla stessa E.N.I. La decisione del C.I.P.E. del 30 novembre 1972 che stabilì la realizzazione di iniziative comuni tra i due gruppi affidando il loro coordinamento alla programmazione economica nazionale rinviò di fatto la soluzione del conflitto E.N.I. — Montedison. Essa fu trovata attraverso accordi tra i due gruppi che sancivano in pratica l’uscita della Montedison dal settore petrolifero mentre I’A.N.I.C. del gruppo E.N.I. avrebbe dovuto rivedere i suoi propositi di espansione nel settore chimico.
La situazione della Montedison andò migliorando grazie anche alla cessione dei molti “rami secchi” del gruppo: all’E.G.A.M. furono trasferite le società minerarie (la Monteponi – Montevecchio) all’I.R.I., l’Alimont, che raggruppava le aziende operanti nel settore alimentare (Pavesi, De Rica, Bertolli, etc.), e all’E.F.I.M. gli impianti per la produzione di alluminio.
Sembrava che nell’industria chimica si fosse giunti ad un armistizio, se non alla pace, ma non era così.
I rapporti tra Cefis e Girotti si deteriorarono rapidamente, anche per la tendenza di Cefis a negare a Girotti uno spazio di autonomia, in particolare a proposito dei rapporti con il potere politico (Briatico). Rovelli, alleato di Girotti, acquistò azioni Montedison fino a detenere l’otto per cento del capitale sociale. La reazione di Cefis fu la presentazione il 14 marzo 1975 delle sue dimissioni dalla presidenza della società motivate con il fatto che erano “venute meno le condizioni di autonomia” della sua azione.
All’assemblea degli azionisti della Montedison Cefis presentò un lusinghiero bilancio dell’anno precedente, che consentiva anche la distribuzione di un modesto dividendo, fatto che ebbe larga eco positiva sulla stampa: Montedison, direttamente o indirettamente, controllava ormai giornali importanti come il “Corriere della Sera” e il “Messaggero” oltre a quotidiani a più limitata diffusione come “Il Tempo” e “il Giornale”. E’ da sottolineare che i rapporti con Rizzoli per indurlo ad acquistare il “Corriere” formarono oggetto di un rapporto redatto da un ignoto informatore per l’organizzazione segreta “Gladio”, trovato tra le carte della struttura nel 1992 dal Comitato parlamentare di controllo e di vigilanza sui servizi segreti: resta a tutt’oggi il mistero del motivo che indusse “Gladio” ad interessarsi della vicenda.
ll 28 marzo il Consiglio di amministrazione della società respinse le dimissioni: Cefis sembrava aver avuto definitivamente la meglio sui suoi avversari. Nel 1974, dopo la lunga prova di forza con Gianni Agnelli, aveva condizionato la elezione del Presidente della Confindustria: Agnelli era stato costretto ad assumere la Presidenza dell’organizzazione degli imprenditori privati con Cefis vice presidente, per bloccare il tentativo dello stesso Cefis di far eleggere un suo candidato.
ll potere conseguito ed i successi ottenuti non eliminavano però il problema di fondo della società che Cefis presiedeva: il principale restava quello della disponibilità di capitali. La società ne aveva assoluto bisogno per proseguire la linea di ampia presenza sia quanto ai prodotti offerti sia a proposito della sua diversificazione sui mercati esteri.
Cefis: troppo potere, troppo potente, troppi nemici
ll 1976 per la Montedison si chiuse con una perdita di esercizio di 60,6 miliardi di lire, che a livello di bilancio consolidato, riguardante cioè tutto il gruppo, diventavano 172. A determinare la situazione negativa non era solo la pesante situazione finanziaria della Società, ma anche il mutato quadro politico ed il coalizzarsi di gran parte dell’industria privata italiana contro Cefis, ritenuto troppo potente rispetto ai tradizionali equilibri del potere economico.
Esisteva ormai un vero e proprio blocco anti Cefis dell’industria privata: ciò portò ad un persistente rifiuto del capitale privato di dotare la Montedison di nuove risorse finanziarie per superare la crisi, mentre il Governo Moro non era in grado di assicurare a Cefis, come avvenuto fino a quel momento, l’appoggio di cui avrebbe avuto bisogno autorizzando l’apporto da parte dei soggetti pubblici (E.N.I., I.R.I.) di nuovi capitali.
I rapporti tra Cefis e Fanfani, storico alleato nella D.C. del presidente dell’E.N.I., erano entrati in una fase critica, mentre Rovelli, Presidente della S.I.R., che godeva di vasti appoggi nello stesso partito di maggioranza relativa, premeva contro la Montedison.
La situazione per la società divenne sempre più pesante: il Governo non volle (o non ebbe la forza politica necessaria per farlo) stabilire nuovi finanziamenti per incentivi all’industria chimica di cui di fatto, in base alle norme allora vigenti, fruiva in prevalenza la Montedison.
Nell’aprile 1975 il Parlamento bocciò la vendita delle partecipazioni finanziarie e assicurative della Fingest, società del gruppo Montedison: la speranza di Cefis di evitare il crollo del gruppo vendendo i “gioielli di famiglia” andò delusa. All’assemblea degli azionisti dei 29 aprile 1977 Cefis si presentò dimissionario: nella sua relazione riaffermò la necessità di un aumento del capitale sociale, sostenne che per l’avvenire esistevano prospettive favorevoli per la società, condizionate però al completamento dei piani di investimento ed attaccò violentemente il potere politico accusandolo di non aver rispettato i patti sia continuando a concedere incentivi ad industrie operanti nel settore chimico che avevano provocato distorsioni nella sua crescita, sia non consentendo nuovi finanziamenti della società da parte degli azionisti pubblici, bloccando così la realizzazione dei suoi programmi di espansione.
Il 14 luglio 1977 Presidente della Montedison divenne il senatore democristiano Giuseppe Medici: fallì il tentativo di Girotti di cogliere in pieno i risultati della sua azione portando alla presidenza della società Alberto Grandi, candidato degli industriali privati, in contrapposizione a Leopoldo Medugno, che era sostenuto dall’industria pubblica (I.R.I.).
Dopo le dimissioni Cefis lasciò l’Italia e si trasferì in Canada, dove aveva avviato iniziative finanziarie ed immobiliari, e poi in Svizzera, dove a Zurigo fissò il centro delle sue attività finanziarie ed imprenditoriali. Negli anni successivi rientrò in Italia e si occupò della Finante (acquistata per 200 miliardi dal suo vecchio collaboratore Francesco Micheli, di cui divenne socio), e di altre iniziative finanziarie: aveva un ufficio, mai abbandonato, in Via Chiossetto a Milano ed abitava in una villa ad Arala, in Piemonte, vicino al confine svizzero.
Donò la sua collezione di 5.000 ex voto al museo del paesaggio di Verbania e smentì in una intervista a “Il Corriere della Sera” (Dario Di Vico, 2001) di aver abbandonato l’Italia per non essere inquisito per un tentativo di “golpe” alla metà degli anni ’70.
Unica certezza sui disegni politici di Cefis è lo stretto rapporto, durato molti anni, con Gianfranco Miglio, per molti anni Preside della facoltà di scienza politiche e sociali dell’università Cattolica di Milano, che sarà negli anni successivi eletto al Senato nelle liste della Lega Nord: Miglio, sostenitore di un progetto politico che spostava il potere dal Governo alle grandi imprese in un quadro di riferimento che “connette il feudo industriale con le autonomie locali”, dichiarerà nel 1993 in un’intervista (La Stampa, 25 aprile) di aver apprezzato Cefis ma di esserne stato deluso nella ricerca dell”‘uomo forte”.
Anche Cuccia, a suo tempo, strenuo sostenitore ed amico di Cefis, restò deluso nelle sue aspettative: alla notizia delle dimissioni da Presidente di Montedison, il banchiere rispose deluso “Credevo che Lei avrebbe fatto il colpo di Stato” (P. Ottone, il gioco dei potenti, Milano, 1985, pag. 290).
Nella realtà delle cose, la politica nel 1977 ebbe senza troppe difficoltà ragione di chi le contrapponeva una logica diversa che riteneva a torto o a ragione di rappresentare. Cefis fu forse la vittima più illustre dello scontro: la sua grande passione era l’arte della guerra (fece conferenze presso il Centro alti studi militari della Difesa, scrisse addirittura un saggio sugli errori militari della “Repubblica dell’Ossola”) ma non si dimostrò all’altezza di von Clausewitz, il teorico militare prussiano dell”800 di cui era fervente ammiratore.
Cefis è morto a Milano il 25 maggio 2004: la notizia, per ragioni non chiarite, è apparsa sui giornali tre giorni più tardi. Nel 1992 il suo patrimonio in Svizzera ammontava a 36 miliardi, oltre al patrimonio canadese ed a quello conservato nella “cassaforte di famiglia” nel Liechtenstein (Briatico).