venerdì 15 Novembre 2024
Il piacere dei sensiL’elogio dell’omonimia

L’elogio dell’omonimia

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Non è, però, soltanto con il riferimento alla scrittura per enigmi, sia pure nobile e cólta, che l’omonimia trova una giusta rivendicazione; è senz’altro possibile individuare altre occasioni e altri motivi di rivalutazione di questa particolarità linguistica. L’incertezza di significato trasforma i vocaboli in strumenti per riattivare l’immaginazione. Non l’andamento regolato del dizionario, ma gli incroci accidentati del pensiero e della voce creano quell’aura di ambiguità, minacciosa e struggente come il canto delle sirene che rivela sotto forme inattese suoni e significati noti.

L’elogio dell’omonimia diventa un elogio dell’eterogeneo, dei collegamenti imprevisti che esistono sotto le forme consolidate e, in apparenza, irrevocabili del nostro parlare. La possibile confusione fra le parole è un pericolo delizioso che riattiva l’interesse per i termini più semplici, più dimessi, come se scoprissimo che la signora del piano di sotto ha un’altra vita, da strip-teaseuse o da funambola, imprevedibile data la sua mole o il suo banale abbigliamento abituale.

La dilogicità dello scritto è realizzata mediante le molteplici articolazioni del nostro lessico e si sviluppa secondo diverse modalità strutturali, tra le quali – in primo luogo – l’uso dell’omonimia, grazie al quale ci si allontana dall’ambiguità caratteristica dell’antico enigma e questo tipo di scrittura assume una connotazione ben differente e sostanziale.

Diventa per altro affascinante l’esito di alcune possibili, utili e concettose manipolazioni di significato: si dice le «piante spoglie» e non si sa se pensare a un paesaggio autunnale o a povere salme oggetto di lagrime; si parla di «credenza piena», ma è incerto se ci si debba riferire ad un ben provvisto mobile da cucina o a una fede assoluta, incrollabile; un «disegno sfumato» potrà indicare una figura dai contorni incerti e digradanti, ma potrà egualmente riferirsi a un progetto andato in fumo; «la capitale francese» è Parigi, naturalmente, ma è anche la ghigliottina, quando si pensi alla pena capitale e alla triste macchina per decapitare. Tutte espressioni doppie, che riescono interessantissime nell’àmbito della semantica, della retorica e delle grammatiche generative.

L’omonimia, in ogni caso, resta sempre alla base di quasi tutti i procedimenti dell’enigmistica, la quale se ne avvale in maniera incomparabile: se nella lingua comune ci si impegna a eliminare ogni possibile ambiguità mediante il contesto, in questa occasione, come nel caso del linguaggio pubblicitario, tale ambiguità diventa protagonista essenziale e insostituibile. È soprattutto grazie all’uso di tali fortunate combinazioni che l’arte degli enigmi continua a realizzare, oltre che un particolare divertimento, un raffinato esercizio di bizzarra cultura.

L’entusiasmo e la passione mi hanno spesse volte indotto, e tuttora talvolta m’inducono a pensare che l’enigma possa assumere le connotazioni della poesia e l’esperienza oulipiana può ancor più facilmente far leggere la scrittura a enigmi alla luce della dominante contrainte,unica e insostituibile: la magnifica regola del doppio significato. È l’esperienza derivante dall’attività dell’OULIPO francese (l’Ouvroir de Littérature Potentielle), il laboratorio letterario fondato da Raymond Queneau nel 1960 e dell’omologo italiano OPLEPO (Opificio di Letteratura Potenziale) fondato nel 1990.

Se l’«oscurità/ambiguità» di cui si è detto può rappresentare un contrassegno della poesia, a maggior ragione potrà/dovrà esserlo dell’enigma, della scrittura enigmistica. Fra tante contraintes formali che pure ordinariamente condizionano la scrittura poetica, questa della scrittura enigmistica conduce spesse volte a risultati sorprendenti e merita certamente attenzione.

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