Soltanto oggi, a inizio ottobre, mi accorgo che il Partito Comunista Italiano ha compiuto 100 anni. La mente corre alle cose lette, a quel 21 gennaio nella sala Sivori di Livorno.
A quei nomi talvolta studiati, spesso sentiti ricordare: Bordiga, Gramsci, Terracini, Bombacci.
A quei tanti compagni con i quali abbiamo litigato per anni lunghi e densi di cose.
Come li invidiavamo, noi poveri socialisti, divisi come eravamo nelle correnti e persino nei gruppi.
Eravamo professionisti del dubbio, sempre pieni di domande e di insoddisfazioni, talvolta tremebondi di fronte alla loro organizzazione militare.
Ci scontravamo, certo, ma li invidiavamo.
Avevano costruito un paradigma teorico che collegava ogni loro atto a un destino glorioso e ineluttabile. Ammettevano, certo, di poter sbagliare (talvolta) ma erano comunque capaci di inserire ogni errore commesso in una dialettica delle cose che dava loro comunque ragione.
O meglio: per una misteriosa sintonia con il divenire erano comunque, anche quando infrangevano i loro stessi principi, dalla parte giusta della storia (con la S maiuscola, però).
Potevano essere contrari al referendum sul divorzio, ma erano convinti (o almeno dicevano di esserlo) di farlo per non turbare la profonda unità delle masse popolari: un valore che dichiaravano superiore a qualunque principio democratico. E via così.
Avevano ritorto e rimodulato il pensiero di Antonio Gramsci, sino a realizzare su se stessi quella esaltante equiparazione del Partito con l’intellettuale organico su cui egli in carcere si interrogava.
Né li stupiva, pensando a Gramsci, che Togliatti ne avesse bloccato la liberazione quando Vaticano e Fascismo avevano organizzato lo scambio con un vescovo prigioniero di Stalin.
E, del resto, quale sarebbe stato il vantaggio di fargli raggiungere moglie e figli a Mosca rispetto ai deviazionisti pericoli che il suo problematico pensiero avrebbe potuto comportare?
Meglio, mille volte meglio, fossilizzarlo in quell’ultima drammatica immagine segnaletica che lo consegna per sempre (o almeno così si ritiene) alla futura primavera.
Ci piacevano, diciamocelo ora che compiono cento anni, perché erano capaci di rigirare tutto quanto. Non vi era valore, principio, posizione che non potessero strumentalmente adottare.
Nel 1936 Togliatti rivolgeva agli italiani “L’appello ai fratelli in camicia nera” ma, più modestamente, nel 1969 il Segretario della Camera del Lavoro di Cagliari invitava il servizio d’ordine ad allontanare noi giovani contestatori (da sinistra) al grido: “Fanti della gloriosa Brigata Sassari, spazzate via questi straccioni!”.
E noi, straccioni lettori di Adorno, scappavamo via terrorizzati dalla bronzea avanzata dei minatori sulcitani.
Ci sarebbe piaciuto essere come loro, i comunisti. Certo che ci sarebbe piaciuto.
Ogni tanto qualcuno ricordava il compagno Morandi e la sua inutile battaglia per dare una strutturazione da centralismo democratico anche al Partito Socialista.
Lo ricordavamo guardando per terra e scuotendo pensosamente la testa, come si fa con una occasione perduta. Poi, però, bastava un cenno con gli occhi di un compagno per appartarsi un attimo e organizzare qualcosa di molto poco “morandiano”.
Ora, non vi è dubbio che tutto questo, e molto altro, è stato condizionato, se non travolto, dai grandi fatti storici (la storia vera, non quella finalizzata). Il crollo di alcuni regimi comunisti e il permanere di altri con caratteristiche sempre peggiori e inaccettabili hanno certamente cancellato la prospettiva su cui, cento anni fa, alcuni individui decisero di cambiare se stessi e il mondo.
Ma non può non colpire la modalità trista e inconcludente con cui questa immensa prospettiva sì è spenta e occultata alla coscienza collettiva.
Si è spesso sostenuto che ognuno muore nella maniera in cui la sua natura lo porta a morire. Da questo punto di vista la morte era, nella cultura classica, il vero momento rivelatore della natura profonda di ognuno. Aiace Telamonio, glorioso eroe sotto le mura di Troia, muore come un demente dopo avere trucidato le mandrie di bestiame che dovevano nutrire il suo stesso esercito. La morte lo rivela come è: insicuro e cattivo, pieno di invidie e gelosie, potentissimo e insieme infantile.
Quando questa consapevolezza esplode nel suo cuore non può fare altro che auto estinguersi. Ma come è possibile che, dopo nove decenni di costante e ripetuta autoesaltazione, dopo avere richiamato costantemente una specificità inimitabile, dopo avere evocato una “diversità” strutturale, ci si estingua nella propria ed altrui indifferenza?
Dove è finita quella passione che ci umiliava? Cosa è successo nella coscienza di quelle molte migliaia di compagni che ci credevano davvero? Come possono oggi vivere senza quella prospettiva finale che li distingueva dagli altri e da noi?
E, infine, come giustificare questa poca grandezza nel momento cruciale? Nessun “Dispera e muori” li ha accompagnati nel finale. Nessuna autocritica ha giustificato l’evento. Nessun suicidio combattente lo ha iscritto nella Storia. Nessuna consapevolezza del presente e del passato si è in quel momento manifestata.
È ben vero che nessuna mano nemica li ha aiutati a morire, che non hanno potuto farlo combattendo, che non hanno potuto fondare nella contrapposizione sconfitta un brandello di identità. Apparentemente se ne sono andati come un pensiero errato che muore senza lasciar rimpianto o ricordo di sé, se non dietro volontaria chiamata.
Per questo penso che, in fondo, quei “valori” non sono morti ma si sono soltanto nascosti. Lo hanno fatto dentro le coscienze individuali, dentro piccole enclave dove ci si riconosce tra pochi, dissimulandosi sotto sigle mutevoli quanto non sostanziali.
Lì essi sono sopravvissuti. Lì la doppiezza tattica, il profondo disprezzo per il diverso, la convinzione che infine si avrà ragione, lo storicismo che ignora la Storia, e così via. Lì, infine, a coronamento del tutto la scissione interiore e la declassificazione del Passato. Stalin non era il comunismo, la Cina e la Corea non sono Paesi comunisti per giungere al capolavoro di un ex segretario nazionale della FGCI che ha potuto dire di non essere stato comunista nemmeno quando era comunista.
Mentre scrivo mi prende una certa pena. Sembra come quando uno, in una serata importante, fa una gaffe micidiale e dovrebbe scomparire ma non vuole (o non può) farlo. Si agita, allora. Parla a voce alta, dà delle gran pacche a tutti, cerca di far dimenticare e insieme attira l’attenzione per far comprendere che non si è imbarazzato e che, forse, quella gaffe la ha commessa un altro.
Che poca grandezza, caro vecchio PCI. Eri nato per creare il mondo nuovo e sei diventato il peggio di quello vecchio. Così, mentre mi chiedo perché mai ti ho invidiato, ti prego di ricevere i miei migliori auguri per i tuoi cento anni così malamente consumati.
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