Un po’ di memoria. Dalle macerie del fascismo e della guerra nasce in Italia una nuova società fatta di libertà e democrazia. I cittadini affollavano le piazze per ascoltare i leader dei diversi partiti. Al potere personale, caratteristica dei regimi autoritari (come dimostra l’esperienza del fascismo che si fondava su una leadership affermata mai sottoposta alla verifica di libere elezioni), si sostituisce, con la Costituzione repubblicana, un rapporto virtuoso fra popolo e leadership. È una stagione felice che dura venti anni.
Il sessantotto segna, con l’ingresso sulla scena politica dei giovani, l’inizio di una nuova fase della vita democratica della società italiana, e non solo. È la rivolta, la rottura, la contestazione di tutte le norme e le istituzioni che fino a quell’anno hanno regolato la vita sociale. Fino a quel momento vi era stata una relazione tra governanti e governati, tra l’autorità e gli individui. Questa relazione, dal punto di vista sociologico, costituisce il rapporto tra gruppi sociali e leadership, un rapporto strettamente connesso alla distribuzione del potere nelle società industriali e alla integrazione necessaria tra interesse generale e interessi settoriali. Un rapporto virtuoso che, nel corso del secondo dopoguerra, vede emergere alcuni leader politici di prima grandezza: basti pensare a De Gasperi, a Togliatti o a Nenni, cioè a personalità politiche così autorevoli da segnare della loro presenza la vicenda politica del loro tempo.
Tuttavia queste leadership si esprimevano in un contesto caratterizzato da una forte presenza nella società dei partiti politici: potremmo dire che finché i partiti hanno svolto un ruolo determinante nel governo della società italiana le leadership erano plurali, nel senso di una dialettica all’interno del partito attraverso cui si formava il consenso intorno ad un leader e di una dialettica tra i partiti, e quindi tra i diversi leader, attraverso cui nasceva la leadership nelle istituzioni e nella società.
Ma l’esperienza della dittatura ha creato una sostanziale diffidenza per la personalizzazione del potere, nel timore che la democrazia con un solo leader possa sfociare nell’autoritarismo. Tale pregiudizio ha pervaso la politica italiana per un lungo periodo – in virtù dell’esperienza storica del fascismo – e soltanto alla fine del secolo scorso è entrata in crisi quando, con la riforma della legge elettorale, si è imposta la figura di Silvio Berlusconi.
Tangentopoli segna una nuova rottura nel sistema Italia: il potere giudiziario prevale sugli altri poteri dello Stato e determina la liquidazione dei partiti democratici che hanno governato il Paese per mezzo secolo. Si celebra la fine delle ideologie e si instaura un nuovo potere che determina la cessazione della dialettica tra i partiti sostituita dalla ricerca di un consenso, non più sul progetto politico o sulla affermazione del proprio ideale, ma sulla capacità di una affabulazione priva di contenuti.
I partiti politici e i loro leader sono stati, nel nostro Paese, gli artefici della nuova democrazia ma soprattutto avevano svolto un ruolo essenziale nella crescita economica e civile dell’Italia assolvendo anche ad una funzione pedagogica che consentì di radicare nella coscienza dei cittadini il modello democratico. La rivolta studentesca del ’68 mise in discussione tutto questo, determinando un cambiamento nello stile di vita e nei valori che fino a quel momento avevano caratterizzato la società italiana minando alla base il concetto di autorità e facendo emergere un fenomeno nuovo: un pezzo della società, in particolare i giovani e le donne, si fecero interpreti di un dissenso che, partendo dalla scuola e dalla famiglia, metteva in discussione l’assetto politico e istituzionale del Paese. Dovranno passare molti anni prima che i partiti prendessero coscienza di quanto era avvenuto nel profondo della società italiana: l’impetuosa domanda di partecipazione diretta alla vita pubblica e l’irruzione sulla scena politica di nuovi soggetti che rivendicavano spazi di libertà, non trovarono risposte adeguate, determinando la prima frattura fra partiti e società civile. In quella frattura germogliarono i semi di una malapianta, il terrorismo che, a partire dagli anni settanta, segnerà la storia del nostro Paese. Ma nello stesso tempo dalle università e dai movimenti nacque una classe dirigente, fortemente politicizzata, di giornalisti e di magistrati, molti dei quali saranno gli artefici e i protagonisti di quel giustizialismo che esplose alcuni anni dopo, all’inizio degli anni novanta.
La sinistra riformista, realizzato il welfare, sembrava incapace di nuovi progetti mentre cresceva la sfida dei terroristi, dal delitto Moro alla strage di Bologna. Di fronte a questi eventi drammatici la politica sembrò incapace di reagire bloccata dal conflitto tra le sue classi dirigenti a cui la gente guardava con crescente disorientamento mentre, in larghi strati dell’opinione pubblica, si faceva strada il convincimento che ormai i partiti erano diventati delle oligarchie sempre più distanti dal Paese reale.
Ho partecipato alla vita politica nazionale fin dalla giovane età. Ho quindi avuto occasione di conoscere da vicino molti leader politici della fine del secolo scorso. Primo fra tutti Bettino Craxi, a cui mi lega un sentimento di riconoscenza e di leale amicizia.
La sua aspirazione ad un grande ruolo nazionale per il PSI presupponeva la conquista di una leadership personale nel Partito. Eletto segretario nazionale all’indomani di una severa sconfitta elettorale compì, lungo otto anni, un grande lavoro politico conquistando nuovi consensi nel Paese e una grande forza all’interno del Partito finchè, al congresso di Verona del 1984, furono cambiate le regole statutarie per cui il segretario doveva essere eletto direttamente dall’assemblea congressuale e quel Congresso elesse Craxi per acclamazione, ossia in forma plebiscitaria. Fu un evento straordinario che contribuì a liberare il partito dal complesso di inferiorità nei confronti dei comunisti e da cui iniziò un percorso politico nuovo ed originale: il legame con le socialdemocrazie europee, l’attivo sostegno ai movimenti di liberazione in sudamerica e medioriente, la sfida ai comunisti, la lotta all’egemonia democristiana e una forte spinta libertaria. Si affermava una linea politica liberalsocialista sorretta da un forte sentimento nazionale.
Ma mentre Craxi dava battaglia sul fronte della scala mobile contro il conservatorismo sindacale o a Sigonella rivendicava l’autonomia della politica estera italiana, il partito socialista appariva immobile, deformato dalle degenerazioni e dalle clientele. Così mentre il nuovo corso craxiano tracciava una strada nuova e diversa per il socialismo italiano, non c’era nulla nella vecchia organizzazione socialista che riusciva a registrare le condizioni nuove. Intanto a Berlino cadeva il muro e insieme si dissolveva lo stato sovietico e il comunismo. Era l’occasione storica per cambiare, ma non ne fummo capaci.
Possiamo prendere la vicenda Craxi come case study per approfondire il concetto di leadership. Nel sistema democratico la leadership è il risultato di un confronto nel partito che genera l’aggregazione del consenso intorno al leader, ma è anche il risultato di un confronto – scontro tra i leader di partiti diversi che si risolve nella preminenza, non necessariamente elettorale, se non in un regime maggioritario, di uno sugli altri.
Quindi cosa significa “leadership”? Ritengo si possa tradurre “posizione di primazia in un certo settore determinato rispetto ad un gruppo indifferenziato di individui che riconoscono l’autorità morale del leader”. Non quindi una posizione gerarchizzata sorretta da norme, da obblighi, diritti o da doveri, ma una posizione di rapporti interpersonali fondati sulla stima, l’apprezzamento, la fiducia.
Da questo punto di vista il termine può essere applicato ad una infinità di personaggi. Era un leader San Gregorio Magno, lo era San Francesco, così come Napoleone, figure diversissime che, prima che su regole precise, fondavano la loro prevalenza, il loro emergere dalla massa degli individui, sull’apprezzamento degli individui stessi. Ma l’affermarsi di una leadership a prescindere dai partiti è sempre da identificarsi in un carisma personale di cui abbiamo purtroppo avuto non felice esperienze nell’Europa del secolo scorso.
Emerge una domanda: “come si acquisisce una posizione di leadership?” ci viene in aiuto la storia. Prendiamo ad esempio Cicerone, un uomo che usava meravigliosamente l’arte oratoria. Quando si reca al Senato romano e pronuncia la celebre orazione contro Catilina (Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?), pur avendo (secondo gli storici) torto rispetto a Catilina, grazie alla sua eloquenza, all’uso della parola, passa alla storia come un grande uomo perché tale lo ritenevano i romani, convinti dalle sue parole. E poca importanza aveva se avesse ragione o torto.
Se un tempo era la parola lo strumento per la conquista della leadership, dopo l’invenzione della stampa, la carta stampata diventa un meraviglioso strumento per la sua conquista. Basta pensare a quanta importanza hanno avuto i giornali nell’800 per la diffusione delle idee repubblicane, contro il prevalere delle opinioni monarchiche, come era naturale che fosse nei regni europei. Proprio in virtù di quella importanza i giornali repubblicani e socialisti venivano sistematicamente sequestrati in tipografia, ancor prima che vedessero la luce: servivano ad esprimere idee e conquistare consensi per la costruzione della leadership di uomini che apparivano come una minaccia per l’ordine costituito. C’era naturalmente anche chi usava l’azione, i comportamenti e la narrazione di quei comportamenti per acquisire una leadership nella società: lo fa Garibaldi con la spedizione dei Mille, così come lo fa Andrea Costa con la “Lettera agli amici di Romagna” che serve a convincere i socialisti della necessità di entrare nelle istituzioni parlamentari in cui lui stesso assume una posizione di leadership come vicepresidente della Camera dei Deputati.
All’inizio del secolo XX la diffusione dei giornali, di partito o espressione di potentati economici, amplia il dibattito annullando lo spazio e il tempo: una opinione può ormai essere diffusa in tutto il paese e ciò che è scritto resta e non può essere cancellato. La stampa annulla la necessità della vicinanza di chi cerca il consenso a coloro ai quali sono indirizzate le sue parole, eliminando i limiti di spazio e tempo. Un giornale poteva far sentire la propria voce da Milano a Palermo, da Torino a Napoli: una volta scritto il concetto rimaneva fermo, al di la di quanto potesse garantire la memoria.
La tappa successiva fu la radio, che trasmetteva la parola anche al di là degli oceani, consentendo la costruzione di leadership che travalicano i confini delle nazioni, rappresentando così il primo passo verso la globalizzazione. Se qualcuno mi chiedesse di indicare la sua origine io la indicherei nel momento in cui Guglielmo Marconi riuscì a far giungere il segnale radio al di là dell’Oceano. La radio diviene lo strumento principale del consenso: pensate agli anni ‘30/’40 ed ai discorsi di Mussolini, Hitler, Churchill, Roosvelt, pensate a questi discorsi trasmessi al di là dei continenti, pensate a Radio Londra durante la guerra, un organo formidabile di disinformazione rispetto all’informazione ufficiale nei paesi nemici. La comunicazione radiofonica è anche strumento di lotta politica, serve a difendere leadership acquisite e ad impedire che ne nascano altre in opposizione a quelle consolidate. Diventa sempre più forte la tentazione di conquistare gli spazi nuovi offerti dall’informazione radiofonica, perché in un momento ci si può rivolgere ad un pubblico indefinito, indeterminabile ed addirittura su continenti diversi.
E’ in questo contesto che nasce la comunicazione televisiva, una comunicazione che va al di là della parola: perché un’immagine non è mai neutra ma esprime sempre un concetto, un’idea, per quello che ritrae, per l’angolazione in cui è ripresa, per il momento in cui è proiettata. In tv bisogna sapersi muovere, chi va in video deve saper gesticolare, deve sapersi esprimere non solo con la voce. Non basta la splendida voce di Mina, ci vuole la sua fisicità, il suo interpretare con le mani e con lo sguardo la canzone. Nasce lo star sistem, ma non nasce nessuna leadership. Nascono delle vere e proprie tecniche della informazione televisiva, in funzione dell’aggregazione del consenso e si pone sempre di più il problema della utilizzazione dei nuovi mezzi per aggregare il consenso politico. Ad esempio per i telegiornali la tecnica del “panino”, che consiste nel predisporre una notizia favorevole ad una certa tesi, poi quella contraria ed infine di nuovo quella favorevole, ben sapendo che quello che rimarrà più impresso nei telespettatori sarà l’ultima immagine, ovvero quella favorevole.
L’informazione televisiva sconvolge così le vecchie regole: ma ancora una volta la leadership è un’altra cosa. Per conquistare la leadership lo schermo televisivo non è sufficiente: non basta metterci la faccia, avere uno share alto, firmare gli autografi alle feste dell’Unità. Da Costanzo a Funari, da Santoro alla Gruber tanta popolarità, forse opinionleader, ma nessuna leadership.
E’ stata la televisione commerciale, con il suo intrattenimento e i suoi spot pubblicitari, a formare un nuovo gusto del pubblico, a cambiare gli stili di vita, a far nascere nuovi bisogni. Così il potere di chi, moderno alchimista, possedeva il segreto della pietra filosofale, seppe agli inizi degli anni ’90 chiamare alle urne quel pubblico e fu l’apoteosi del pifferaio magico.
Si è inaugurata un’epoca nuova e l’hanno chiamata seconda repubblica: la vera novità stava nel fatto che la leadership non era bloccata, ma si poteva trasferire da un settore ad un altro. Chi è bravo a conquistare la leadership in un certo settore, ha compreso la tecnica di aggregazione del consenso e può utilizzare quella tecnica anche per finalità diverse da quelle originali. Silvio Berlusconi, il miglior venditore di palinsesti televisivi che ci sia stato in Italia, si avvale di quella stessa tecnica quando da industriale della comunicazione diventa leader politico e lo fa utilizzando lo stesso stato maggiore di cui era contornato come proprietario di un gruppo televisivo.
Anche in questo caso ovviamente possiamo parlare di leadership ma questa nasce nella prospettiva della personalizzazione della lotta politica. Per la prima volta nella democrazia contemporanea in Italia il potere e l’influenza accumulati in un’altra sfera dell’attività furono direttamente trasferiti nell’agone politico. L’obiettivo non fu quello di dare vita ad un partito, ma di far nascere una leadership, di organizzare una forza di governo altamente personalizzata. Basta pensare alla introduzione “fuorilegge” della elezione diretta del capo del governo mettendo il nome del candidato insieme al simbolo elettorale del partito. A questo ovviamente concorsero i mezzi finanziari e le risorse organizzative, umane e tecniche, che l’imprenditore Berlusconi aveva costruito nel tempo: fu la sua concessionaria di pubblicità la struttura e lo strumento con cui venne selezionata nel 1994 la classe dirigente di un partito che fin dal nome Forza Italia richiamava i simboli e gli slogan di una partita di calcio.
La quarta e più recente rivoluzione è quella di Internet e del digitale. La rete potrebbe consentire di dare risposte soddisfacenti alla sempre maggiore complessità dei gruppi sociali ed alla sempre maggiore scheggiatura degli interessi, che diventano sempre più particolaristici. E per questo sarebbero necessari leader autorevoli e influenti per evitare il rischio di sbandamenti pericolosi come è avvenuto in Gran Bretagna con la Brexit. Oggi non abbiamo grandi leader come De Gasperi, Berlinguer, Craxi, per fare solo qualche esempio, che, al di là delle posizioni politiche, cercavano di aggregare il consenso su grandi temi di trasformazione della società. C’è da chiedersi se ciò accada per mancanza di uomini, in grado di presentarsi con un’idea di futuro della società, o non piuttosto al fatto che è sempre più difficile oggi conciliare interessi parcellizzati, diventati micro-interessi, in una sintesi più alta.
Ad esempio i cittadini che vivono in un determinato territorio si raggrupperanno per la difesa degli interessi di quel territorio per poi dividersi su un tema strategico come, ad esempio, il privilegiare la circolazione di merci su gomma o rotaia, oppure se privilegiare la costruzione di una scuola piuttosto che un soccorso medico. E così via per tante altre infinite motivazioni di ordine contingente che rientrano nella vita, nel modo di essere e di vivere ogni giorno. Si tende ad aggregare il consenso, attraverso internet, su singoli argomenti, il consenso sui grandi temi si spezzetta.
Emergono leader locali (o leader nazionali “monotematici”) cioè “accentratori” di consenso su temi “ristretti” a singoli problemi, a singole contingenze. Quelli attuali sono, e non solo in Italia, leader liquidi, che mutano cioè continuamente ed sono causa di incertezza e di instabilità. Dalla rete è nata la teoria dell’uno vale uno, negazione della rappresentanza, la teoria della democrazia diretta. È la morte della leadership.
A ben vedere quello che potrebbe sembrare una debolezza, per quanti credono alla democrazia rappresentativa, è invece uno strumento di forza, perché evita che qualcuno possa presentarsi come un nuovo Napoleone, magari con una rappresentazione di se stesso fondata sull’anonimato dei clik e con questo conquisti un consenso, e che (forte di ciò) affermi di rappresentare tutti i cittadini senza bisogno del tradizionale bagaglio della rappresentanza politica. Così è finita la breve stagione politica di un comico che aveva dato voce alla protesta di piazza, come non può iniziare quella di un giovane ignoto imprenditore gestore di una piattaforma sulla rete e non può nascere quella di un giovanotto senza arte nè parte nominato “capo” per merito di un click e di un atto notarile.
Siamo per molti aspetti in un nuovo medioevo: quando finirà nessuno può dirlo. La scimmia di don Chisciotte è saggia perché conosce il passato ed il presente ma rinuncia a “vedere” il futuro. La sua lezione di saggezza vale anche a proposito della leadership e dei suoi strumenti per conquistarla.
Ieri facevamo a gara a chi consumava di più, oggi, facciamo i conti con una crisi che dura da un decennio e che sembra non avere una via d’uscita: forse è sbagliato chiamarla crisi, meglio sarebbe riconoscere che ci troviamo dentro un tornante della storia che sta cambiando tutto.
I grandi ideali si sono dissolti, si è certificata la morte delle ideologie e al loro posto diversità e onestà sono il marchio di garanzia dei nuovi inquilini dei palazzi del potere impegnati ad immettere nella società dosi massicce di giustizialismo ed estremismo, mentre inaugurano nuove strade verso est che non si sa dove ci porteranno. Tutto è nuovo e tutto è veloce e forse la mente non è abituata a fare salti. Ci sono fenomeni che appaiono incomprensibili: la ventata di eguaglianza e di livellamento che ci ha investito non ha come obbiettivo la redistribuzione della ricchezza di marxiana memoria; la democrazia sembra risolversi in una sequenza del grande fratello in cui tutti devono sapere tutto, controllare tutto, vedere tutto come se vivessimo in una scatola di vetro.
La protesta, l’antagonismo, l’invidia, il rifiuto sono alla base del “sentire” di una ceto di governo senza conoscenza. È il danno maggiore, la mancanza di cultura: l’unico strumento che può aiutare a capire ciò che accade. Il confronto politico è caratterizzato da una cinica e spregiudicata utilizzazione dei media: dalla televisione alla rete prevale la banalizzazione del linguaggio, i twitter hanno preso il posto dell’analisi e della proposta. E per chi governa il problema è misurare in ogni momento il consenso alla sua azione politica, una sorta di campagna elettorale permanente. Al posto dei voti ci sono i sondaggi: ciò che importa è il gradimento dell’immagine del capo, la sua fragilità, l’estrema volatilità del consenso.
Tutto ciò ha cambiato la nostra democrazia? Certamente sì. E’ cambiato il rapporto fra cittadini e politica, perché sempre di più i cittadini hanno bisogno, non di un’idea politica, non di un progetto o di un programma, quanto di un uomo politico che interpreti e rappresenti i loro bisogni, ma soprattutto che parli la loro lingua, sappia dar voce alla paura e alla rabbia. Da democrazia a monocrazia: è questo il volto nuovo dell’autoritarismo che è la premessa per l’attentato ai diritti di libertà conquistati in tanti anni di battaglie civili. E’ il pericolo da evitare.
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