Nella Roma di un paio di secoli fa, nobili, principi, conti o marchesi che fossero, vivevano veramente da gran signori: proprietari di grandi estensioni di terreno e di castelli intorno alla città, vivevano con grande sfarzo nei loro palazzi, usufruendo di rendite che in alcuni casi durano ancora ad oggi.
Intorno a loro viveva un popolo di artigiani, di piccoli commercianti, di lavoratori dell’edilizia, tutti accomunati da una vita grama, fatta di molta fatica e di pochi soldi. La loro alimentazione era fatta di pane, di verdure, di uova… e di buon vino dei castelli romani. Di carne, fatta eccezione di quella di pollo nelle grandi feste, nemmeno a parlarne.
Nacque un’idea quanto meno originale: i nobili mangiavano carne (di bue, di vitello, di abbacchio, di maiale) ma facevano dono al popolo degli scarti della macellazione. Come la testa, i piedi, la coda, le interiora, i polmoni, il cuore, il fegato e via discorrendo.
Tutto questo durò almeno fino al 1870, quando l’arrivo dei piemontesi sconvolse l’assetto precedente, con la conseguenza che gli scarti di macellazione furono posti in commercio e costarono qualcosa: era finita l’alleanza tra principi e popolo in nome degli scarti di macellazione.
Il problema era trovare il modo più appropriato per cucinare ciò che non aveva i pregi necessari per comparire nelle mense dei nobili. Nacquero così molti piatti tipici della cucina romana, dalla paiata (intestini degli animali macellati quando si cibavano ancora solo del latte materno), alla coratella (interiora dell’abbacchio), ai fegatelli di maiale (pezzi di fegato di maiale avvolti nella rete peritoneale con una foglia di alloro), alla lingua (bollita con erbe varie). Su tutte queste invenzioni alimentari, per la maggior parte cadute in disuso, primeggiava e primeggia ancora la coda alla vaccinara, cosi detta perchè la ricetta, secondo alcuni, risale a coloro che curavano l’allevamento degli animali, detti appunto “vaccinari”.
La coda è priva di carne, è fatta in gran parte di cartilagine, dura e gelatinosa, trasformarla in qualcosa di cui cibarsi volentieri, sembra impresa impossibile.
Il modo di prepararla è invece semplicissimo: tagliata dal macellaio in piccoli pezzi, bollita per 4 o 5 ore a fuoco lento, con sedano in abbondanza, con cipolle e carote, passata poi in un sugo di pomodoro in cui abbonda di nuovo il sedano (foglie comprese), o cotta (secondo altri) direttamente in questo sugo per lo stesso tempo, la cartilagine diventa tenera e mangiabile. Tenete presente che a questo scopo, la coda deve cuocere almeno 6 ore a fuoco lento, ed è pronta quando l’abbondante sedano si è quasi dissolto nel sugo, che ha assunto un colore scuro.
Finita la cottura, i più raffinati aggiungevano fuori dal fuoco, un cucchiaino di cacao amaro, un’usanza dovuta, secondo alcuni, alla molto diffusa convinzione del tempo, secondo la quale il cacao tenesse lontano il colera, fino al secolo scorso ancora molto diffuso. Secondo altri invece l’aggiunta serviva ad accentuare il gusto amaro dovuto al sedano, per controbilanciare il dolce della cartilagine, divenuta tenerissima dopo la lunga cottura.
La coda alla vaccinara è un cibo che può piacere o meno: a Roma si trova ancora in alcuni ristoranti, rimasti a testimoniare l’antica cucina romana, con uno dei piatti più caratteristici di essa.
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