Quando la terra cominciò a tremare, mio nonno, piccolo e nerboruto, si caricò mio zio su una spalla, il vicino sull’altra e si fiondò giù per le scale. Entrambi infermi non avrebbero avuto scampo: mio zio aveva diciassette anni. Il vicino, cinque volte di più.
Erano le 19.34 di domenica sera 23 novembre 1980. La terra tremò per 90 interminabili secondi uccidendo 2194 persone. Di giorni, dall’attentato più cruento della storia repubblicana, ne erano trascorsi 113: era il 2 agosto quando la stazione di Bologna Centrale saltò in aria. Dalla strage di Ustica, invece, erano passati 149 giorni. In quei casi le vittime furono rispettivamente 85 e 81.
Per me, il 1980 è sempre stato, soprattutto, l’anno orribile del sisma dell’Irpinia. Una ferita rimasta aperta nei ricordi e nella commozione della mia famiglia. Lo stesso dolore che ho ritrovato, quarant’anni dopo, nel silenzio seguito al fischio del treno che ha collegato, virtualmente, la stazione di Bologna a Piazza Maggiore. L’emozione dei testimoni, dei parenti, di chi portò soccorso nelle ore tremende che seguirono la strage è la stessa di chi visse l’emergenza di quella fredda notte sull’Appennino campano.
Ora che le circostanze imprevedibili della vita mi hanno condotta proprio a Bologna, nel quarantennale del terremoto e delle stragi, la trama del passato va ricomponendosi attraverso la celebrazione del lutto. Un lutto che mi ricorda quanto la storia recente dell’Italia sia stata un travaglio continuo, costante. L’errore più grave che si possa compiere, ora, è dimenticarlo. Pensare che nulla di quanto accaduto ieri, sia comparabile alla nostra fatica oggi. Al nostro dolore.
A ben guardare il solo 1980, una lunga scia di sangue unì il Paese, da Nord a Sud. Quello stesso Paese che oggi si divide sul fronte della pandemia. Rivendicando risultati migliori o peggiori nella gestione dell’emergenza sanitaria. Per lo più in ragione di meri tatticismi politici. Per giustificare una maggiore o minore quantità di risorse che il governo centrale dovrebbe riconoscere a questa o a quella regione.
È quasi ridicolo pensare alle convulsioni politiche odierne dell’Italia. Un Paese che ha conosciuto il dramma della guerra civile, del terrorismo e dell’eversione, delle infiltrazioni massoniche, delle stragi di mafia. Catastrofi naturali devastanti. La corruzione politica che anziché ricostruire ha definitivamente distrutto i territori colpiti da quelle stesse calamità. Come fu per il sisma dell’Irpinia, al quale pure seguirono processi e commissioni di inchiesta come quelli istruiti per le stragi. Indagini sulla mala gestione della ricostruzione, certo. Ma anche sulle morti che si sarebbero potute evitare se i comuni della parte alta della provincia irpina non avessero subito interventi edilizi speculativi.
Ecco a cosa serve la memoria. Ecco cos’è il dovere della memoria. È il dovere di fermarsi a riflettere. Di respirare prima di parlare, col coraggio di voltarsi indietro a guardare, senza timore per quel che potremmo vedere. È il dovere di dare radici più solide all’avvenire, grazie a una lettura più lucida del presente.
Il passato definisce ciò che siamo.
Immaginare di poterne prescindere ci condanna a un eterno inizio. Un’infanzia senza fine che ci rende fragili, dipendenti, incapaci di definire una rotta autonoma.
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