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È tutto vero

Per due giorni tv e giornali hanno rilanciato le immagini di polizia e carabinieri mentre monitorano Scampia ricorrendo a dei droni. Prima il tg3 poi il Corriere della Sera, che ha messo in prima in prima pagina uno scorcio delle vele. Più che uno scorcio, uno squarcio nella nostra decantata civiltà. Perché quel mondo sospeso tra la realtà di una miseria senz’appello e l’insostenibile leggerezza della fiction è un pezzo d’Italia. È tutto vero: non è un film.

È vero, com’è vero che nel capoluogo irpino, Avellino, dopo quarant’anni ci sono decine di famiglie che vivono ancora in prefabbricati fatiscenti, in piedi da oltre 35 anni. Li tirarono su, tra il 1982 e il 1983, la Rivelli e la Feal, due imprese che poi finirono sul banco dei teste nei processi sulla corruzione che permeò in la ricostruzione post-sisma del 1980. È vero com’è vero che la decine di famiglie vivono ancora nelle “vele” edificate a Scampia tra il 1962 e il 1975. Quello che doveva essere l’avveniristico piano abitativo, progettato da Franz di Salvo, si è trasformato in un carcere senz’appello per intere generazioni condannate, loro malgrado, a vivere in un girone infernale. Già in terra. È vero com’è vero che esistono comuni come Castelvolturno dove non esiste alcun genere di servizio e gli amministratori sono una sorta di fanteria che operano in una trincea permanente. A prescindere dalle epidemie.

È vero, è tutto vero: ci sono milioni di italiani la cui esistenza stessa è un’emergenza. Soprattutto al sud. Ai primi di marzo, Openpolis ha certificato che in Sicilia e Campania ha accesso agli asili nido meno del 10% dei bambini. È per questo che le donne meridionali lavorano molto meno e per farlo, non di rado, rinunciano a avere figli. Due giorni fa, il quotidiano Orticalab ha raccolto la testimonianza di un giovane volontario di Ariano Irpino, comune  campano messo in quarantena assoluta. Non si entra e non si esce. Roberto Tulipano ha raccontato di una comunità allo stremo, sommersa dalla neve e dove è diventato ancor più drammatico l’approvvigionamento di beni di prima necessità. In tante realtà, soprattutto più piccole, è solo la presenza di volontari che riesce a compensare la totale inesistenza di strutture di assistenza sociale.

Degrado urbano. Foto di Gabriele Picello da Pixabay

I piani di zona sociale, in alcune zone d’Italia, sono solo delle formule burocratiche in cui far confluire risorse da usare per distribuire prebende e alimentari veri e propri ricatti elettorali. Per non parlare della sanità, dei concorsi truccati e degli accordi politici su nomine di manager e primari che diventano architrave di intere alleanze. È vero. È tutto vero e questa emergenza non sta facendo altro che ricordare all’Italia qual è la realtà che, da anni, ha rinunciato ad affrontare.

In questi giorni si discute di ripartenza, di misure di sostegno al reddito e alle famiglie, senza che si riesca a comprendere chi ne saranno i potenziali beneficiari. Le partite iva. Sì, ma quali se gli iscritti agli ordini professionali ne sono esclusi? La cassa integrazione per i lavoratori dipendenti. Sì, ma di quali aziende se in tanti sono stati messi in ferie forzata e quando finiranno i giorni di riposo scatteranno le assenze giustificate non retribuite?

In questi giorni si di dice che quello che uscirà da questa emergenza sarà un Paese nuovo, migliore. Una speranza che va necessariamente alimentata, ma che allo stato è un’utopia autoconsolatoria. A meno di non immaginare come risolvere le sperequazioni di un’Italia che vive di centri urbani congestionati e pochi poli di concentrazione della ricchezza. Un’Italia in cui Milano e Scampia coesistono senza che nessuno, da decenni, riesca a elaborare una strategia di sistema che garantisca alla seconda almeno la dignità dei diritti fondamentali. A meno di non riprendere in mano, con seria dedizione, la storia di questo Paese, provando a scavare al di là delle rigide incrostazioni di un immaginario, affermatosi come il confine che segna una distanza profonda. Per far ripartire il Paese ci vuole il carburante giusto, che non è quello economico. L’economia è il serbatoio. La politica, la benzina.

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Giulia D'Argenio

Giulia D’Argenio, 33 anni, una laurea in relazioni internazionali e un dottorato in storia dell’Europa. Ha incrociato il giornalismo nel periodo della ricerca e per sei anni ha collaborato con il quotidiano indipendente Orticalab. La cronaca e le inchieste hanno viaggiato di pari passo all’impegno nel volontariato, prima di virare sul mondo degli eventi e della cultura, scoperto negli anni dell’università e nel periodo di collaborazione con la Fondazione Idis di Napoli. Oggi lavora con la Fondazione Francesco Saverio Nitti

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