Roma 1945: la guerra è appena finita, ma la penuria di generi alimentari, almeno per chi non ha i denari necessari per acquistarli alla borsa nera (leggi contrabbando) si fa sentire.
C’è il circolo San Pietro, ci sono alcune mense riservate a piccoli gruppi (forze armate, polizia di stato, carabinieri) ma per la maggior parte dei romani c’è una forzata dieta stretta. Arrivano aiuti dagli stati Uniti ma sono insufficienti e limitati ad alcuni generi (latte evaporato, barattoli di carne tritata con vegetali, maccarello lesso, piselli in polvere, baccalà secco). Arriva una decisione del Ministero della Pubblica Istruzione: le scuole elementari, cessate le lezioni, si trasformeranno per tutta l’estate in colonie estive, in modo che i bambini possano avere almeno un pasto al giorno. La dotazione di cibo disponibile è il solito scatolame, in quantità rigorosamente stabilite per ogni bambino.
Mia madre, insegnante di scuola elementare, diviene la direttrice della colonia estiva della scuola che frequento, in via di Casetta Mattei, un edificio una volta occupato dal Dazio, poco lontano dall’Ospedale del Buon Pastore, ancora ospedale militare. Inizia la mia vita in colonia in nome del pasto quotidiano. Dopo la prima settimana eravamo tutti pieni di baccalà e zuppa di piselli: malgrado la fame buona parte del cibo restava nei piatti di alluminio. Per mia madre fu un grosso problema: i generi disponibili erano quelli che erano e l’iniziativa si avviava al fallimento.
La salvezza venne da una vecchia Signora romana, la Sora Tilde, che abitava li vicino ed accompagnava il nipotino alla colonia. Si lamentò con mia madre per la qualità del cibo e propose alcuni cambiamenti sul suo confezionamento. Uno dei suggerimenti riguardava la preparazione del baccalà, non più cotto nei padelloni con pomodoro e cipolla, ma confezionato in polpette secondo un antico metodo molto semplice che ho ritrovato in un appunto di mia madre: “immersione dei pezzi di baccalà, a bagno dalla sera precedente, in acqua bollente con sedano, carote e cipolla, bollitura per pochi minuti, raffreddamento nella pentola, estrazione dall’acqua e, una volta freddo, via pelle e spine e “sfranto”, poi mescolato a qualche patata lessa (una per circa 3 etti di baccalà, pure schiacciata) ed un uovo per mezzo chilo di baccalà”.
Le cuoche formavano piccole palline che poi passavano brevemente nel pane grattato e successivamente friggevano nella margarina o collocavano nel forno a legna dove cuocevano per qualche minuto, fintanto che il pane grattato non formava la “crosticina”.
Il suggerimento si rivelò efficace, le polpette di baccalà piacquero a tutti, specie quando erano ripassate nel sugo dei pomodori che crescevano nell’orto e che le rendeva ancor più saporite. Ne mangiai per una estate intera. Fu il mio contributo alla causa del “veloce pesce del baltico”.
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