Network

Il commercio dei capelli

La leggenda narra che Elva (prov.Cuneo) sia stata fondata da quattro briganti in fuga, alla ricerca di un posto nascosto e inaccessibile, ma in grado di garantire la possibilità di vivere.

Non potrebbe esserci descrizione più esatta di questo paesino inerpicato a 1637 metri sulle Alpi Cozie in Val Maira, una delle valli occitane in  provincia di Cuneo.  Le valli dei trovatori  medievali che hanno cantato l’amor cortese in tutta Europa.  Nascosto e inaccessibile, con una popolazione che all’inizio del ‘900 superava i 1300 abitanti, oggi non arriva a 30. Vivere qui non era e non è facile. L’agricoltura di montagna fino a pochi decenni fa non consentiva sciali e il lungo inverno portava non solo caterve di neve, ma soprattutto fame. Gli ingegnosi elviesi si sono inventati così un originalissimo mestiere: comprare e vendere capelli. A chi sia venuto in mente per primo non si sa, forse – come dice un’altra leggenda – ad un soldato dopo la battaglia di Campofornio nel 1797, forse ad un ragazzo andato a fare il cameriere a Parigi e lì venuto in contatto con dei fabbricanti di parrucche. O più semplicemente ad un mercante elviese che si era reso conto di quanto il commercio dei capelli fosse più redditizio di quello delle stoffe.  Fatto sta che in questa attività era coinvolto praticamente  tutto il paese, soprattutto le donne.

Secondo una stima degli anni 20/30 del ‘900, sui mille e rotti abitanti di Elva almeno 500 erano occupati nella lavorazione dei capelli. Alcuni laboratori arrivavano a 10/12 lavoranti.

Una volta conclusa la stagione dell’agricoltura, in autunno, i pelassiers – questo il nome in lingua occitana / caviè in piemontese – si diffondevano in Piemonte, Lombardia, Veneto, Savoia, Svizzera, Tirolo , spingendosi fino all’Appennino tosco-emiliano. E se si pensa  che questo mestiere è cominciato all’inizio dell’800, con i mezzi di trasporto dell’epoca, si fa presto a capire quanto difficoltosi e faticosi fossero questi viaggi. “Un anno siamo partiti da Orsinocci di Verona – è la memoria di Daniele Mattalia, raccolta in un libretto che si vende nel piccolo museo di Elva – a piedi, per risparmiare la spesa del treno. In poco più di una settimana eravamo ad Elva.  Risparmiare 10 lire di viaggio era importane!”

Evitavano le zone di campagna più povere perché lì la gente campava prevalentemente di castagne e i capelli erano secchi, sbiaditi e poco resistenti alle lavorazioni . Li tagliavano, ovviamente,  alle donne  e per quei tempi, per quelle ragazze, era una vergogna, un dolore, ma la fame vinceva e alla fine come agnelli che vanno al macello, consentivano al taglio. C’erano anche mogli che lo facevano di nascosto al marito, e quando lui tornava a casa, erano dolori. Una donna con i capelli corti era una vergogna! Tanto che spesso il compratore regalava alla poveretta un fazzoletto per coprire il cranio fino alla ricrescita della chioma.

Fondamentale, quindi per il pelassier era la capacità di persuasione, lo charme, un abbigliamento curato. Importantissimo era anche sapersela sbrogliare con i dialetti locali e altrettanto importante era poter dialogare con gli altri pelassier  senza essere capiti. E’ nato così un gergo impenetrabile che bisognava imparare se si voleva fare questo mestiere.  Una sorta di rito di iniziazione.

Ognuno di loro riusciva a mettere insieme dai 50 agli 80 chili di chiome. Alcuni le rivendevano ai grossisti. Altri le portavano a Saluzzo dove si svolgeva un vero e proprio mercato. Le merci erano valutate per lunghezza e per colore, ondulazione, finezza. E si potevano spuntare buoni prezzi se, per esempio, erano particolarmente larghi. Il più pregiato era il capello bianco cenere. “due mila lire di guadagno – ibidem – erano soldi, in quei tempi una vacca valeva 500 lire!”

Il ritorno ad Elva era a in genere a maggio,  per la festa del santo patrono, San Pancrazio. E durante l’inverno cominciava un lungo lavoro, cui spesso erano coinvolti anche i bambini. Le chiome dovevano essere lavate e ordinate per lunghezza e colore. Ci si metteva su un tavolino con tutta l’attrezzatura e ci si rovinava gli occhi per separare i vari tipi. Il tutto, quando andava bene, al lume di candela.  Un lavoro di precisione meticolosissimo: c’era un ferro, una specie di ago da calzolaio per distendere i capelli già divisi, poi si faceva la mana. “mettevamo in grembo un mucchietto di questi capelli stirati – Caterina Lombardo, stessa fonte – li arrotolavamo come a fare un pan di burro. Poi li districavamo sul pettine in maniera che tornassero ben distesi. Poi li mettevamo a bagno nell’acqua calda e soda perché le radici andassero tutte assieme. Ancora un’altra lavatura perché diventassero ben lucenti, una scelta per lunghezza, la legatura e una volta asciutti, era pronti per fare la parrucca”.

Non c’erano da selezionare solo i capelli, ma anche i pens dal penche, ovvero il cascame trattenuto dal pettine e dalla spazzola, perché a volte la domanda di parrucche era tale che non bastava il “bottino” raccolto. La donna interessata  alla vendita dei suoi “pelucchi” li arrotolava a ricciolo intorno al dito per facilitare il lavoro al pelassier, li metteva nei sacchetti e glieli vendeva.

I compratori erano grossi commercianti per lo più francesi che a loro volta li avrebbero rivenduti ai fabbricanti di pregiate parrucche. In genere erano francesi e inglesi, ma anche americani, tedeschi  e canadesi. E così un piccolo e sperduto paese di alta montagna sviluppa una attività capace non solo di impedire l’immigrazione massiccia, ma anche  di travalicare l’oceano.

Alcuni pelassiers hanno fatto fortuna. Da venditori e compratori ambulanti hanno aperto vere e proprie aziende nella valle, a Dronero come a Saluzzo. Un’attività continuata fino agli anni 80, lo testimoniano i registri conservati nel museo di Elva .

Poi, come per tutte le mode, le parrucche non sono state più glamour, i capelli adesso li vendono le ragazze povere dei paesi dell’Est Europa. E il mestiere si è perso. La gente di Elva nel secondo dopoguerra se ne è andata a lavorare a Torino o è scesa a valle. è rimasto solo qualche eroe della montagna e il museo . Una memoria di un tempo passato, di una vita grama, di quando anche noi eravamo povera gente.

Condividi
Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

Ultimi articoli

A proposito di violenza sulle donne

Apollo e Dafne (Ovidio, Metamorfosi, libro I). “Fer pater… opem… qua nimium placui mutando figuram!”.…

27 Novembre 2024

Ai e search engine, quale futuro per i contenuti?

Il LinkedIn Top Post di oggi è di Marco Loguercio che ci introduce al tema…

25 Novembre 2024

I principi del successo

L’autore ci svela il suo segreto, non è stata la conoscenza a portarlo in alto,…

25 Novembre 2024

Slow Productivity, produttività lenta. Un ossimoro, almeno a prima vista

Negli ultimi anni è cresciuto un sentimento contrario alla produttività sempre più diffuso tra i…

25 Novembre 2024

Di bellezza si vive

Si conclude domani a Roma, alle ore 10.30, presso l'Archivio di Stato, Sala Alessandrina -…

25 Novembre 2024

AI ultima frontiera: ChatGPT 4o with canvas

Avete mai immaginato un'interazione con l'AI ancora più intuitiva e creativa? ChatGPT 4o, ora nella…

9 Novembre 2024