A Roma, quando le famiglie che abitavano nelle campagne circostanti (ed avevano un lembo di terra disponibile) vendevano il maiale allevato con grande cure, era gran festa: c’era la prospettiva di tante leccornie ed era certo che poco o nulla dell’animale sarebbe andato sprecato.
Prosciutti, salami, salsicce, lardo, pancetta, guanciale, stinco, testa, fegato, piedi erano pronti per essere utilizzati tutti secondo le ricette della tradizione. Da scartare restavano poche cose (cuore, polmoni, cervello, ossa): perfino la rete del peritoneo era impiegata per avvolgere pezzi di fegato con una foglia di alloro da cuocere in padella.
La sapienza culinaria si esprimeva anche nella utilizzazione della sugna, che era la massa di grasso collocata in cima al dorso fino alle reni, venata da qualche minuscolo brandello di carne (oggi si può trovare solo in qualche superstite norcino di paese).
Bastava tagliare a piccoli pezzi, mettere in una pentola e collocarla su un fuoco molto basso. Dopo un po’ di tempo il grasso iniziava a liquefarsi. Quando era molto liquido ed ancora caldo, si filtrava con canovaccio, al centro del quale restavano i minuscoli frammenti di carne. Il liquido, collocato in grossi barattoli di vetro, era lo strutto necessario ancora oggi per confezionare il “cornetto mattutino”, per friggere e per mille altri usi al posto dell’olio, più costoso.
Quello che restava nel canovaccio, erano invece gli sfrizzoli: potevano essere utili per una frittata con le uova, ma soprattutto per confezionare saporitissime focacce.
Mescolati alla pasta per il pane dopo la lievitazione (un pizzico per ogni piccolo pane) con il grasso che contenevano rendevano il pane più friabile e saporito. Squisitezze di altri tempi, ricordi persi nel tempo di una Roma che non esiste più.
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