Corre l’anno 1987. L’amico Edzard Reuter, potente capo di Daimler Benz (cui fa capo Mercedes), mi fa l’alto onore di invitarmi ad un convegno segreto, in qualità di responsabile di una grande industria tedesca, l’Iveco Magirus. E’ un tipo di evento che può tenersi soltanto in Germania. Si incontrano industriali, finanzieri, politici, sindacalisti e persino giornalisti, una trentina di persone. Stanno attorno al tavolo tutto un giorno a discutere di cose concrete, e di quei discorsi, e delle scelte che vengono concluse in modo efficace ma del tutto informale, non trapela nulla mai all’esterno. Il contrario dei molti convegni italiani, dove tutti vanno, magari a pagamento, per decidere niente e dire ovvietà al solo scopo di mettersi in mostra in TV o sulla stampa il giorno dopo.
Quel giorno si parla di aumenti salariali per il nuovo contratto di lavoro di alcuni lander della Germania: si prevedono un po’ di negoziati e minimi scioperi ad uso dell’opinione pubblica, ma quale sarà l’esito finale è già previsto e definito sin da ora.
Poi si discute di Europa. Quasi al termine, la segretaria seduta al mio fianco mi sussurra all’orecchio la traduzione delle impreviste parole di Edzard: “So che l’amico Garuzzo non condivide molte delle idee che avete esposto. Gli chiedo di dire francamente cosa pensa.” Resto di stucco, ma non sono impreparato all’argomento. Decido di andare giù duro.
“Quanto all’Europa, voi tedeschi da tempo vi trovate davanti ad un bivio – dico – ma tergiversate e non riuscite ad imboccare una strada con determinazione.
Prima alternativa che avete di fronte: costruire voi l’Europa unita, unita per davvero. Voi. Avete tutto per farlo. I soldi, l’organizzazione, la credibilità, la coesione, l’industria… Dalla vostra avete persino la geografia e non dovreste fare come i piemontesi che per “fare” l’Italia sacrificarono il Piemonte, da regno autonomo a provincia periferica. Di quell’Europa sareste i leader indiscussi. Ma, attenzione. In quel progetto, in quanto leader, dovreste farvi carico dei problemi di tutta l’Europa. Quindi, per esempio, i problemi della Grecia o della Scozia dovreste considerarli alla stregua dei vostri.”
Per carità di patria non nomino l’Italia, ma tutti capiscono. Quanto alla Scozia, non vi avevano ancora trovato il petrolio.
“Seconda alternativa – proseguo – Deutschland über Alles. Allora, accordi con i giapponesi a scapito di Francia e Italia (in quei giorni si stavano negoziando le quote di import di automobili e i tedeschi ci giocavano contro perché avevano favorevoli accordi bilaterali che i nostri governanti non erano capaci o non volevano fare), industria e finanza concentrate soltanto sul vostro territorio, concorrenza spietata alle altre nazioni d’Europa, lotta dietro le quinte a quelle che tentino di emergere e nessun aiuto a quelle che avessero dei guai… Àla guerre comme à la guerre.
Per adesso nell’alternativa non avete deciso, ed oscillate da una posizione all’altra.”
Si scatena la bagarre. “Non è vero – urla il presidente del Baden Wurttemberg – siamo europeisti convinti.”
Quando si placano, Reuter trae le conclusioni: “Forse, amici, c’è del vero in quel che dice Garuzzo… Attenzione che l’Europa non faccia la fine dell’asino di Buridano, che muore di fame davanti a due mucchi di fieno davanti a lui, per non sapere quale scegliere tra i due.”
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Molti anni or sono scrissi il resoconto del momento curioso che mi era toccato negli anni 1980, per un libro che non pubblicai mai. Sono passati più di trent’anni da quel giorno, ed i tedeschi ancora non hanno scelto, e l’Europa fa la fine paradossale dell’immaginario “asino di Buridano”, che muore di fame malgrado abbia il fieno davanti a lui.
Mi sembra tempestivo riesumare quella storia oggi, quando all’Europa manca una leadership che sarebbe quanto mai necessaria in questo momento di crisi. Perché ancora adesso, come allora, la Germania non ha avuto la capacità, o la voglia, di scegliere. Ma i tempi sono cambiati e, forse, la temperie socio-economica del post coronavirus potrebbe indurre a qualche ripensamento. E’ forse utile aggiungere qualche considerazione.
Per l’Italia sarebbe molto grave ma possibile abbandonare l’Unione Europea, ma sarebbe impensabile abbandonare l’Euro, per motivi tecnici prima che politici. Preferisco dimostrarlo con quello che gli scienziati chiamano “esperimento pensato”- thought experiment, ad uso di chi talvolta propone delle iniziative senza senso.
Supponiamo (mettendoci in uno scenario precedente alla pandemia) che il primo giorno di un prossimo gennaio parta una Nuova Lira, con il rapporto di cambio di 1 Nuova Lira per 1 Euro.
Immediatamente chi si trova in possesso di Lire cerca di cambiarle in Euro, che giustamente considera più affidabili. Allo stesso tempo, sia i fondi e sia i privati, scommettono contro la Lira, ed attivano la speculazione “a termine”, cioè acquistano Euro oggi, 1 a 1, da pagare con lire domani 10 a 1. A fronte dell’offerta, la Nuova Lira si svaluta rispetto all’Euro, malgrado la Banca d’Italia cerchi di difenderla ad oltranza, senza successo, come ha fatto in passato (ricordiamo i tempi di Ciampi ed Amato), e si dissangua di “valuta pregiata”. Si mette in moto l’esiziale macchina della speculazione diffusa: le Lire scottano se tenute in mano per un po’ di tempo e, come sempre in questi casi, c’è chi si arricchisce cavalcando i differenziali, mentre chi è a reddito fisso viene penalizzato.
E’ inevitabile: a fine gennaio la Nuova Lira si cambia contro 10 centesimi di Euro, al massimo.
Aumentano i costi in Lire per l’importazione di alimentari e di energia dai fornitori stranieri, che vogliono essere pagati in Euro: in un mese l’Italia registra un’inflazione dell’80%. Partono gli scioperi degli operai per ottenere aumenti di salario, i pensionati che non possono scioperare dovranno tirare la cinghia. Il governo interviene, e cosa può fare? Può soltanto sospendere la convertibilità della Nuova Lira con l’Euro e il Dollaro e bloccare i conti bancari in Italia: i possessori possono ritirare da quei conti soltanto poche Nuove Lire ogni mese. Per assecondare l’opinione pubblica, il Parlamento emette leggi che promettono anni di galera agli esportatori di valuta, pene che non saranno mai comminate a nessuno.
Fantasia? No: basta guardare quanto è successo nei paesi che si sono trovati in condizioni analoghe, casi emblematici Argentina e Venezuela: i tassisti ed i pensionati di Buenos Aires conoscono e praticano più transazioni finanziarie dei finanzieri di professione. Noi possiamo ricordare la triste vicenda della vecchia Lira quando era tenuta nel regime di cambio forzoso del “serpente monetario” tra gli anni 1980 e 1990, fino alla maxi-svalutazione, quando il valore del Marco passò da 740 a 1100 lire in un week end, dopo che la competitività delle industrie italiane era già crollata da tempo a seguito di un regime di cambi proibitivo.
Lo scenario che ho descritto sarebbe inevitabile se qualche sprovveduto governo portasse davvero all’infelice “ritorno” della Lira. Non facile invece è prevedere quali conseguenze politiche ne discenderebbero. Nessun governo potrebbe cancellare immediatamente la macro-sciocchezza e rientrare nell’Euro ed in Europa. Cosa allora: un governo di stampo peronista? di stampo mussoliniano? un inedito governo dei poveri? Chissà. Comunque una dittatura, probabilmente.
Il malfunzionamento dell’Unione, che tutti lamentano, è strutturale.
Il Parlamento di Strasburgo non ha alcun potere effettivo. La Commissione di Bruxelles ha poteri enormi, soprattutto normativi, ma non è eletta e di fatto non deve rendere conto a nessuno delle sue azioni. Quanto di più antidemocratico si possa immaginare. In pratica è gestita dalla Germania, che ha dalla sua il potere economico e la vicinanza geografica. Qualche concessione alla Francia ed all’Olanda, perché sembri un’entente internazionale, e il gioco è fatto. Le regole finanziarie decise dall’U.E. sono in modo assoluto cogenti, ma non esistono regole comuni che consentano un habitat economico egualitario: tassazione, costi finanziari, supporto bancario, ecc. Nella “fattoria degli animali” di orwelliana memoria, c’è chi è più uguale degli altri… e quindi più “virtuoso”.
La Germania ha dedicato molte attenzioni ad asservire la struttura dell’Unione, occupandone i posti di staff. L’Italia se ne è disinteressata per decenni. Persino, davvero, sovente i commissari di nomina italiana,, hanno assunto atteggiamenti di pan-europeismo teorico e snobistico, se non addirittura ingenuo, senza spendersi per proteggere gli interessi dell’Italia; al contrario i colleghi tedeschi e francesi hanno perseguito deliberatamente (quasi esclusivamente, forse) l’interesse delle loro rispettive nazioni. Me ne diede esplicitamente atto un giorno negli anni 1980 il potentissimo “Commissario al mercato interno ed all’industria”, ex ministro dell’economia di Germania, Martin Bangemann, quando osai lamentarmi con lui per il suo strapotere a Bruxelles, che durava da oltre dieci anni.
Forse la scarsa padronanza delle lingue da parte di molti politici italiani ha contribuito alla loro latitanza dai corridoi delle stanze del potere dell’Unione. In tutti i paesi, gli Stati Uniti in primis, la politica interna fa premio su quella estera, per motivi elettorali, ma per l’Italia l’Unione non dovrebbe essere considerata “estero”.
Le conseguenze dell’inadeguata struttura dell’Unione, e dell’italico disinteresse, sono state molto gravi: i governanti italiani, e di altri paesi membri, si pongono sovente in aprioristica antitesi con l’Unione, cui, per scusare la propria inettitudine, attribuiscono colpe che invece sono loro, accentuandone la solitudine, le inefficienze e la disistima. Le popolazioni sono sensibili ai difetti dell’Europa unita, veri o presunti, e ne dimenticano i vantaggi. Manca del tutto l’ “effetto-volume” nei confronti degli altri grandi ammassi di popolazione del mondo, effetto che dovrebbe essere uno dei principali obiettivi dell’Unione, atto a raggiungere la “massa critica” in soldi spesi e persone impiegate nella ricerca, nella difesa, nell’economia, in modo da competere con gli altri: 450 milioni di abitanti l’Unione (senza più contare l’Inghilterra) si devono confrontare con Cina (1,400 milioni), India (1,300 milioni), USA (330 milioni), Russia (150 milioni). Il produttore di aerei Airbus, proprietà di Germania e Francia, é forse l’unico esempio esistente di tale sinergia continentale, in grado di competere ad armi pari con Boeing, sostenuta dalle enormi commesse militari e spaziali degli USA.
L’oligarchia tedesca, cioè quelle 2000 persone che, si dice – ed io concordo, di fatto governino il Paese, non é in maggioranza anti-europea. Tantomeno antitaliana. Anzi, molti membri dell’intellighenzia tedesca amano l’Italia. Oltre agli aspetti di empatia culturale, l’establishment tedesco é cosciente dell’importanza del mercato italiano, e quindi favorevole al suo benessere per il benessere dell’industria tedesca.
L’atteggiamento popolare in Germania è più freddo, se non addirittura ostile, anche perché l’Italia ha sovente disseminato autodenigrazione ed alimentato stereotipi negativi che i media poi hanno cavalcato. I tedeschi sono costituzionalmente attentissimi a dare di sé un’immagine di efficienza, di razionalità e di etica. Quand’ero presidente dell’Associazione dei Produttori di Autoveicoli europei (ACEA), soltanto i membri tedeschi mettevano un’enorme attenzione nel leggere preventivamente ogni rigo dei documenti che venivano preparati, ancor più dei comunicati che davo alle stampe, per evitare che trapelasse il seppur minimo accenno o sospetto di debolezza o di difetto. Purtroppo, per lungo tempo a partire dal 1969, i partiti ed i media italiani si diffondevano a denigrare l’industria nazionale (per motivi di politica interna), con il risultato di fare dell’Italia l’unico paese al mondo che di industria prosperava e che sull’industria ci sputava sopra.
Comunque, nessun politico tedesco di oggi se la sente di andare contro il mood del popolo: Merkel non è Adenauer. Questa dicotomia provoca io stallo che richiama l’apologo reso celebre nel quattordicesimo secolo alla Sorbona dal filosofo Buridano.
L’Italia, con tutta la buona volontà, non potrà mai restituire ai creditori il suo debito pubblico. Nemmeno ridurlo. C’è un feedback perverso: più si facessero sacrifici per risparmiare, meno il Paese produrrebbe surplus di ricchezza. Da decine di anni l’Italia non è stata in grado di generare “cassa libera” da impegni di budget da usare per il rimborso, quel free cash flow con cui le aziende remunerano gli azionisti; comunque, se di cassa ce fosse stata, nessun partito avrebbe accettato di cederla ai creditori, tanti sono gli appetiti interni. Con il passare del tempo è aumentato l’indebitamento per i ritardi di pagamento ai fornitori ed anche quello degli enti pubblici (regioni, città, aziende municipalizzate, ecc.). Cifre aggregate non vengono mai pubblicizzate, per non spaventare la finanza internazionale, anche se questa conosce benissimo la situazione, anzi, talvolta persino immagina cifre peggiori di quelle reali.
Tutti sanno da lungo tempo che prima o poi è inevitabile il nostro fallimento, eufemisticamente chiamato default. Si è evitato finora perché non avrebbe fatto buon gioco a nessuno nel mondo: nessuno gradirebbe un bis del caso Lehman, o peggiore. L’attesa del default è misurata dallo spread, che, come ben noto, misura la cifra degli interessi che i finanziatori vogliono incassare dai nostri BOT in più rispetto ai bonds tedeschi, a fronte del rischio di perdere tutto, prima o poi. Se nessuno si aspettasse mai il default, lo spread sarebbe zero. Ma l’attesa del default ci costa ogni anno un paio di punti sul debito, rendendolo più probabile. Uno spread al 2% recupera l’intero valore del BOT in meno di 50 anni!
Come avverrebbe (avverrà) il default? Sarebbe bene che fosse “pilotato”, cioè che lo Stato “consolidasse” il debito pubblico, rifiutando il rimborso alla scadenza di ogni tranche, dilazionandole tutte a lunghissimo termine, con rate di rimborso di pochi percento all’anno, senza interessi. Così le banche creditrici non dovrebbero cancellare tutto il credito nei loro bilanci, cosa che le metterebbe a loro volta in crisi, anche se non potrebbero evitare svalutazioni, perché il mercato prezierebbe a meno della metà il valore del credito postergato, a giudicare da cosa è successo in passato ad altri paesi. Ovviamente lo Stato non potrebbe accendere nuovi debiti, e dovrebbe far fuoco con la legna che ha, cioè pagare stipendi e forniture a misura che incassa i soldi dalle tasse. Diverrebbe forzatamente “virtuoso”. Probabilmente, per fronteggiare le spese di breve termine, dovrebbe ricorrere ad un iniziale prelievo forzoso sui patrimoni. C’è un serio problema in questa apparentemente semplice operazione. Molta ricchezza del Paese sta, come si dice a Napoli, sotto il sole, cioè è real estate. Oltre all’impopolarità di una tassa una tantum sugli immobili, ci sarebbe il problema per i proprietari di trovare i soldi per pagare il balzello, e la necessità di reperire la liquidità necessaria porterebbe a vendere parte degli immobili stessi, abbattendone il valore. D’altro canto, una tassa patrimoniale limitata agli investimenti liquidi sarebbe non solo ingiusta ma insufficiente, se non fosse di entità smisurata.
Di fatto, in modo inespresso ma implicito nei comportamenti collettivi, ci si aspetta che il trigger del default sia, prima o poi, di origine esterna: una crisi mondiale, una guerra… Una pandemia?
La pandemia. Un fatto nuovo di rilevante importanza, che può alterare gli equilibri internazionali. Non sono mai stato un estimatore dei numeri del PIL, il “Prodotto Interno Lordo”, che considero una misura accademica di difficile impiego, perché mette in conto anche trasferimenti di valore interni ai paesi, che non vogliono dire generazione di ricchezza netta. Per di più, malgrado l’opinione degli esperti di statistica economica, non credo che si riesca a misurare con la precisione di un decimo di punto percentuale le variazioni di un’economia come la nostra che vive, o sopravvive, del “sommerso” che, per definizione, rifugge dalle misurazioni. Ciò che conta veramente, secondo la mia esperienza di uomo di industria, è il l’indice della “Produzione e Vendita di Beni e di Servizi”, che corrisponde a “creazione” di ricchezza reale. Orbene, per valutare l’evoluzione storica nei rapporti tra paesi diversi le statistiche da prendere in considerazione dovrebbero essere quelle dell’OECD, se non fosse che talvolta hanno cambiato la base di riferimento (nel 2010 e nel 2015), rendendo difficile andare indietro a valutare cosa è successo su tempi lunghi. Mettendoci un po’ di impegno, si riesce a capire che l’Italia tra il 2000 e il 2020 ha perso tra un terzo ed un quarto delle sue capacità di produzione, rispetto a Germania e Stati Uniti, e molto anche rispetto a tutti gli altri paesi, compresi quelli più “sfigati”. Se si fa il conto, quella percentuale perduta corrisponde all’incirca a 10 milioni di posti di lavoro: i disoccupati di oggi.
Nell’industria moderna nelle condizioni normali di durissima competizione internazionale in ogni comparto, il fatturato differenziale tra paesi non si potrà recuperare mai più. Nessuno riaprirà le centinaio di fabbriche che sono state chiuse qui da noi nei passati vent’anni. Ci sarà ancora un’ulteriore perdita differenziale, ulteriori chiusure, a causa della pandemia? Probabilmente si. Noi, giustamente, abbiamo privilegiato la salvaguardia delle vite umane rispetto alla produzione. Interventi governativi ed aiuti sotto forma di prestiti internazionali, allontanerebbero la prospettiva del default, ma, aumentando comunque il debito pubblico, lo renderebbero più probabile in là nel tempo. I debiti, per qualsiasi ragione siano accesi, sono poi da restituire.
Nei momenti di discontinuità è difficile prevedere cosa succederà. Forse, messa di fronte alla catastrofica eventualità di un fallimento italiano, seguita da quello della Spagna e di altri, la Germania sceglierà finalmente di farsi carico della costruzione europea. E gli stati salvati riconosceranno in cambio la leadership di Berlino, e di Frankfurt, più facilmente dopo la fuga del Regno Unito e di Londra, che certamente facilita l’unione d’Europa. In fondo, già ora alcuni Lander tedeschi ne finanziano annualmente degli altri, e, come mi disse un giorno il presidente della Baviera, tali ricchi Lander, quasi tutti nella Germania meridionale, sono culturalmente ed economicamente più vicini all’Italia del Nord ed alla Francia, che alla Prussia.
Ma c’è uno scenario alternativo.
E c’è anche un modello concreto cui fare riferimento che ricordo benissimo: l’Italia del 1945. Il paese di montagna dove abitavo con la mia famiglia, era distrutto dall’incendio appiccato dai tedeschi per rappresaglia il primo giorno di agosto 1944 – e con esso la nostra casa era completamente bruciata; l’inflazione aveva annullato il potere d’acquisto della lira – e quello dello stipendio di maestra elementare di mia madre (che restava a valori di anteguerra) sui quale esclusivamente la mia famiglia poteva contare per sopravvivere; ponti e strade erano distrutti – in Piemonte si passavano alcuni fiumi con un traghetto; le ferrovie erano a pezzi – a Torino la stazione di Porta Nuova era abbattuta, i treni si fermavano in mezzo ai binari e le biglietterie stavano in baracche di legno; la disoccupazione era enorme – si riveda “ladri di biciclette”; il Politecnico era ridotto ad un ammasso di rovine, come molte case e quasi tutte le fabbriche…
La catastrofe della guerra si era innestata su di una miserevole situazione pre-esistente. L’Italia del dopoguerra avrebbe potuto finire come un paese sottosviluppato del terzo mondo e nessuno in giro per il globo se ne sarebbe stupito. Del terzo mondo facevano già parte le Alpi, gli Appennini e quasi l’intero sud del Paese. La cultura ufficiale stava su quella lunghezza d’onda, a descrivere, forse con qualche compiacimento di troppo, la miseria, il sacrificio e l’emigrazione, dal verismo del Verga al neorealismo, attraverso lo “strapaese” fascista.
Poi cambiò tutto in un attimo, inaspettatamente. E ‘Italia si qualificò come una potenza industriale di prim’ordine.
Chi attribuì il “miracolo economico” al successo del piano Marshall, chi all’intuizione di imprenditori illuminati, chi all’accumulo capitalistico basato sullo sfruttamento di una manodopera a basso prezzo. Sono spiegazioni basate su qualche teoria, in parte ovviamente vere, ma parziali e insufficienti a spiegare i fatti. Io ero ragazzo ma già ben conoscevo e condividevo il mondo desolato della montagna e quello poverissimo della campagna, la vita modesta di paese cui la mia famiglia partecipava, e quella dei clan più ricchi che frequentavo in collegio e, poi, all’università, e anche, almeno un poco, il pensiero degli imprenditori come un tal commendatore Ariodante Erba, un signore milanese che era padrone della fabbrica tessile del mio paese, e credo proprio di non sbagliarmi: il “miracolo economico” fu una grande saga collettiva, un’epopea straordinaria che avrebbe meritato di essere cantata dai rapsodi come ai tempi delle migrazioni ioniche e doriche, e illustrata con lo stesso orgoglio che gli americani misero nel mitizzare le gesta della “conquista” del loro West. Milioni di persone emersero dalla guerra con la voglia di darsi da fare. Vennero fuori migliaia di imprenditori come Vittorio Valletta, Adriano Olivetti, Enrico Mattei, e Ariodante Erba, con poche somiglianze tra loro, certamente anche con molti difetti, ma accomunati dalla voglia di fare e di far fare. Vennero fuori giovani di ogni con- dizione sociale disposti a spendere le serate sui libri. Vennero fuori ragazzi che intendevano applicarsi con passione alla scienza ed alla tecnologia, E vennero fuori stuoli di emigranti dal nord e dal sud animati dal sogno di una vita migliore per sé e per i propri figli, da costruirsi non per “diritto” ma con l’impegno della loro sagacia, o, almeno, con l’impegno delle loro mani. Ascoltai allora e ricordo adesso cosa si di- cevano tra loro quelli che scendevano dalle montagne del nord verso l’ignoto cittadino, e che intenzioni avevano, e non credo che quelli che arrivavano dall’altra parte d’Italia avessero pensieri e propositi diversi. E, in allora, lo Stato contava quasi niente, e nessuno si aspettava che la salvezza dovesse venire dai politici, per decreto.
Ai tempi del “miracolo economico” gli italiani accumularono una ricchezza enorme. Tutti gli italiani. Anzi, furono i poveri ad arricchirsi ben più dei ricchi, perché questi ultimi ricchi lo erano già prima. Il generale arricchimento non era fondato su debiti contratti dallo Stato per elargire denaro fittizio alla collettività: il debito pubblico rimase sempre molto basso a testimonianza del fatto che si produceva ricchezza vera. Era un fenomeno molto diverso dalla quella che sarebbe stata la “bolla” degli anni 1980 e 1990, quando lo Stato avrebbe preso a debito un mare di soldi da elargire agli italiani, che provvedevano immediatamente a trasferirli ai conti bancari esteri (i ricchi) o sperperarli in spese voluttuarie per beni in larga misura importati dall’estero, magari dalla Germania (la generalità dei meno ricchi).
Perché gli italiani, che hanno trovato fermezza ed unità nel combattere il virus, non potrebbero permettersi un “miracolo italiano” 2.0 ? E’ questo l’obbiettivo che dovremmo porci. Come garanti allora avevamo De Gasperi, Pella, Einaudi, ora potremmo mettere in campo Draghi…
Comunque, al tempo dell’ “epopea” degli anni 1950 e 1960 non avevamo la zavorra del debito pubblico pregresso, debito che si era azzerato con la guerra e la svalutazione selvaggia della lira. Oggi per consentire la ripetizione del miracolo un nuovo “piano Marshall” dovrebbe in qualche modo “europeizzare” il debito pubblico. Provare a prospettare ai partner i preparativi per il “consolidamento” potrebbe contribuire a far passare il concetto di Unione Europea “forte”, cioè con un bilancio comune, regole economiche e fiscali eguali e un’Italia di nuovo prospera. Se l’idea di una partecipazione tedesca ad una completa unione dell’economia europea può sembrare ingenuamente irrealistica, forse la prospettiva di un default generalizzato che attraversi l‘Europa, ed alla fine probabilmente anche trascini la Germania, potrebbe non suonare così insostenibile all’opinione pubblica tedesca, o almeno ai 2000 che, come ho detto prima, decide ogni aspetto della realtà di quel Paese.
Il sentimento popolare è certamente un ingrediente indispensabile per qualsiasi avanzamento dell’unità europea effettiva. I governi dovrebbero pensarci. Dopo tante considerazioni di “fredda” economia perché non pensare a qualcosa di sentimentalmente collettivo? Perché non cominciare dallo sport, dove l’impatto unitario sarebbe più immediato? Per esempio, si potrebbe varare una “nazionale” europea per le Olimpiadi giapponesi del 2021, ove l’Europa nel computo delle medaglie supererebbe alla grande Cina, USA e Russia.
Il golf europeo unito ha vinto più edizioni della famosa “Ryder cup” biennale che non gli Stati Uniti, l’ultima volta nel 2018 a Parigi: la gara del 2022 si giocherà a Roma.
La coesione massima verrebbe dalla nazionale di calcio unica ai campionati mondiali: forza Europa!
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