Dopo settant’anni di relativa stabilità, il quadro della politica internazionale sta cambiando con moto accelerato. La mutazione appare più profonda di quanto avvenne sul finire degli anni ’80 con il crollo dell’Unione Sovietica. Allora terminava il bipolarismo che, dopo l’accordo di Yalta (1945), aveva visto il mondo diviso in due grandi aree geopolitiche, l’una a guida statunitense l’altra a guida sovietica. Restava tuttavia un grande nucleo gestito dagli Stati Uniti, dominante sul resto del mondo frastagliato in aree minori geografiche economiche e politiche. C’erano i paesi del Terzo Mondo che intanto crescevano, Cina, India e Brasile in particolare, ma sempre qualche passo indietro. Oggi il panorama è radicalmente cambiato per un insieme di ragioni.
Al primo posto va considerata l’ascesa irresistibile del gigante asiatico. La Cina è divenuta l’antagonista principale degli Usa e sta giocando da protagonista a tutto campo. In Africa ha un ruolo leader che sta soppiantando il vecchio schema fondato sulla presa delle ex potenze coloniali, Regno Unito e Francia. L’Africa potrà essere il continente del futuro considerando la ricchezza del territorio e delle risorse che contiene.
In parallelo agisce il defilarsi degli Stati Uniti per effetto della politica del presidente Trump che sta riportando quella grande potenza mondiale in un ambito di isolazionismo militare, economico e politico. Il ritiro dalle aree calde del Medio Oriente, l’appoggio alle velleità della Turchia, l’abbandono del curdi che erano stati al suo fianco nella difficile lotta al terrorismo islamico, la crescente pressione sugli alleati europei della Nato affinché si assumano il costo della difesa, segnano se non il declino certo il concentramento dell’attenzione su un obiettivo più ristretto ben rappresentato dal credo trumpiano dell’ “America first” che potrebbe portare all’ “America only”.
Ancora gli Usa protagonisti in campo economico con la guerra dei dazi alla Cina e all’Europa, che mette in discussione l’intero assetto del commercio mondiale e del globalismo che si è determinato nel corso degli ultimi decenni.
Il ritiro americano nel proprio “io” sta lasciando spazio alla ripresa politica e militare di un attore quale la Russia, che sembrava emarginata dopo la fine del regime sovietico. Quanto è avvenuto nell’ultimo frangente tra Siria e Turchia ha rimesso Mosca pienamente in gioco e con un ruolo di nuovo arbitro della situazione Medio Orientale.
Per l’Europa la situazione si è fatta ancora più complessa per la Brexit, la decisione britannica di uscire dall’Unione Europea. L’equilibrio economico politico e che si era determinato, pur con il persistere di forti diversità nazionali, è a rischio.
Nessuno sa bene quali saranno gli effetti della Brexit in generale, tanto per il Regno Unito quanto per i singoli paesi dell’Unione. C’è un nodo soprattutto che non sarà facile districare, quello del mercato finanziario che è concentrato nelle istituzioni londinesi. Un mercato che coinvolge il giro dei capitali europei e mondiali. Quale sarà l’alternativa? Finora non se ne è discusso in maniera conveniente. Se da un lato la Banca centrale europea, sotto la guida di Mario Draghi, ha svolto un ruolo determinante per l’affermazione della moneta unica e il sostegno al sistema bancario europeo, resta l’incertezza circa la capacità del nuovo centro o dei nuovi centri chiamati a gestire il flusso dei capitali e dei finanziamenti. Ammesso e non concesso che non si debba continuare a far perno sulla piazza di Londra.
Se gli inglesi hanno scelto la loro strada, gli altri europei appaiono indietro circa la direttrice del loro futuro. La non lontana uscita di scena di Angela Merkel, la leader che in questi anni ha mantenuto compatta l’unione, non è una buona notizia, poiché non esclude che all’interno della Germania prendano forza impeti più nazional conservatori. Degli altri grandi due paesi fondatori, Francia e Italia, il cammino non è lineare. Il presidente francese Macron, mancando la sponda Merkel, avrà la forza, oltre che la capacità, di tenere il timone dell’unità? L’Italia, dal canto suo, è presa da troppi problemi interni, finanziari e politici, per aspirare ad un ruolo di aggregazione di consensi tra i paesi minori.
In questi ultimi venti anni, l’Unione europea ha mancato l’occasione di spingere su un’unità politica estesa, portandosi nella prospettiva di uno stato federale, a partire dai sei fondatori che avrebbero dovuto costituirne il nucleo e lavorare, piaccia o no, per un’unione a due velocità che avrebbe garantito stabilità e certezza. Del tutto è mancata una politica adeguata ad affrontare le situazioni internazionali ed ora se ne paga lo scotto.
Stabilità e certezza che sono messe a rischio proprio dalla Brexit. L’uscita del Regno Unito e il venir meno dell’ago della bilancia del nodo finanziario, può portare paesi come Benelux e altri del Nord Europa ad orientarsi verso il mantenimento di un intimo legame finanziario con Londra. Ipotesi da non scartare.
Quali sarebbero le conseguenze sull’unione, sul mercato unico, sull’euro, nessuno è in grado di prevedere.
In assenza di grandi afflati politici unitari, mercato unico e forza dell’euro appaiono oggi gli strumenti più consoni per consolidare l’Unione e garantire una ripresa di ruolo anche nella politica internazionale. E’ necessario mantenerli ben saldi.
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