I dati pubblicati in questi giorni da Istat ed Eurostat ci dicono che il PIL italiano nel 2019 è cresciuto appena dello 0,2%, cioè sostanzialmente non è cresciuto, mentre quello dei paesi dell’area Euro è cresciuto dell’1,2%.
Se scorriamo la serie storica possiamo verificare che nei quaranta anni che vanno dal 1949 al 1989 il Pil italiano era aumentato di quasi il 550% con una media annuale del 4,85 e il paese aveva conosciuto un solo anno di variazione negativa (-2,5% nel 1975) e solo quattro di crescita inferiore al 2% (1971 e 1981-1983). Nel corso di quella lunga epoca non solo era aumentata la ricchezza prodotta ma era stata anche resa più equa la sua distribuzione con l’estendersi dei diritti sociali ed erano cresciute le libertà individuali con l’estendersi dei diritti civili. Il paese aveva attraversato duri conflitti sociali ed anche i tragici anni di piombo ma era sempre rimasto un paese dinamico, innervato da aspettative positive e esperienze innovative.
Nel trentennio 1989-2019 la crescita complessiva è stata inferiore al 25% (media annuale dello 0,7%) e ci sono stati solo quattro anni in cui è stata superiore al 2%; chiudiamo il 2019 con un valore del flusso netto di beni e servizi prodotti che continuerà ad essere inferiore a quello del 2008. L’Italia è dunque diventata una società economicamente stazionaria e questo, come ha osservato efficacemente il prof. Ricolfi nel suo libro sulla “società signorile di massa”, significa semplicemente una cosa: se l’ammontare totale non cresce allora al miglioramento della condizione di qualcuno non può che corrispondere il peggioramento della condizione di qualcun altro. La “società del rancore”, descritta dai miei ex colleghi del Censis, nasce da questo e diventa sempre più difficile rintracciare in essa aspettative positive.
La stagnazione economica concorre, infatti, anche a spiegare la modifica dei comportamenti sociali: in una società in crescita l’affermazione di sé ha la possibilità di manifestarsi nell’ambito dell’impegno nel proprio lavoro che produce un maggior benessere per sé e per la propria famiglia, in un orientamento verso il futuro che si traduce in alti tassi di risparmio e nell’investimento in beni materiali (la casa) o immateriali (l’istruzione dei figli) che hanno un valore a lungo termine ed in un senso di appartenenza ad una comunità vasta che produce rispetto reciproco e cura dei beni comuni.
In una società stazionaria le opportunità di veder riconosciuto il proprio impegno e le proprie capacità sul lavoro diminuiscono e il centro di interesse diventano consumi e comportamenti che conferiscono una riconoscibilità e un’identità immediata – i soldi spesi per acquistare gli smartphone più performanti e il tempo trascorso attraverso di essi sulle piattaforme social sono l’aspetto più evidente di questa evoluzione -; il senso di appartenenza si indebolisce ed il rispetto è soppiantato dalla diffidenza verso i propri simili e dalla ostilità verso chi appare diverso.
Eppure anche in questo scenario è possibile rintracciare esperienze innovative che guardano al futuro: si tratti di imprese che aprono nuovi mercati e adottano innovazioni, di amministrazioni pubbliche che cercano di impiegare le nuove tecnologie per migliorare la funzionalità delle città e rivolgersi ai cittadini, di esperienze sociali che affrontano il tema della sicurezza anche con gli strumenti della solidarietà. Ma queste esperienze non trovano grandi riscontri né nella politica né nei media (social o mass che siano) troppo impegnati ad alimentare opposte demagogie manichee. Come diceva Manzoni il buon senso non è scomparso, sta solo un po’ nascosto per paura del senso comune.
I segnali di dinamismo (non solo quelli economici ma anche quelli istituzionali e sociali) sembrano peraltro essere concentrati solo in un’area –importante ma limitata- del paese, all’interno del cosiddetto “nuovo triangolo produttivo” costituito da Lombardia, Veneto (e Trentino A.A) ed Emilia Romagna con limitate propaggini in Piemonte, Toscana e Marche. Restano fuori (con poche eccezioni) non solo il Mezzogiorno ma anche ampie aree del Centronord (compresa la capitale). Sempre elaborando i dati Istat si ottiene, infatti, che delle 26 province dove il valore aggiunto pro capite è superiore di oltre il 10% alla media nazionale ben 18 appartengono al “triangolo produttivo” e tra le 8 residue 4 (Roma, Firenze, Genova e Torino) sono città metropolitane. All’opposto tra le 51 province dove il V.A. è inferiore di oltre il 10% alla media nazionale se ne trovano solo 2 (Pavia e Rovigo) che appartengono al triangolo. Gli indicatori elaborati da FPA per misurare l’innovazione produttiva, sociale e amministrativa nelle città italiane restituiscono una distribuzione territoriale tendenzialmente simile.
Una simile concentrazione delle dinamiche innovative è una medaglia con due facce molto diverse. Da una parte è confortante perché testimonia che – ove esistano specifiche condizioni territoriali favorevoli- è possibile superare le zavorre che appesantiscono il “non sistema” paese, dall’altra è preoccupante perché indica una spontanea tendenza all’ampliamento delle disuguaglianze territoriali. Il circolo vizioso in precedenza sommariamente descritto, che porta dalla stagnazione economica alla disincentivazione dell’impegno nel lavoro e negli investimenti (nonché alla diffusione di consumi e costumi evanescenti e della diffidenza e del rancore sociale) e da questo a un ulteriore indebolimento delle spinte allo sviluppo, rischia quindi di radicarsi in vaste aree del paese determinando un’inerzia negativa che, con il passare del tempo, diventerà sempre più difficile superare.
Per affrontarla ci vorrebbero culture politiche che guardino alle opportunità del futuro e non alle responsabilità del passato, ma ne vedo poche tracce.
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