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Non siamo cinesi

Sino alla metà del 20º secolo la Cina per noi italiani era quella di Marco Polo, quella delle grandi dinastie, dei favolosi e misteriosi imperatori, delle sete pregiate. Poi venne l’epopea della lunga marcia, della rivoluzione culturale, del libretto rosso di Mao portato a Roma dagli studenti italiani che per le vacanze rientravano dall’Inghilterra, in una versione in lingua inglese. Era il 1966 o 67, quelle sentenze di Mao, il grande Condottiero, accesero gli spiriti ovunque in Europa e in Italia, produssero discussioni accese come mai DC e PCI avevano provocato rompendo la pace politica di Don Camillo e Peppone che pure aveva prodotto pane  e lavoro per tutti ed anticipavano la grande deflagrazione della rivoluzione del 68/ 69 ovunque nel mondo occidentale. Gli intellettuali colsero l’occasione al volo: Bellocchio girò un film di grande successo “La Cina è vicina” e Goffredo Parise scrisse il bestseller “Cara Cina”.

Il grande Condottiero si era riappropriato del potere con un massimalismo esagerato, eliminando i riformisti, che dopo un ventennio di potere lo avevano emarginato. Quegli anni bui della Cina non scoraggiarono i suoi sostenitori, sorsero ovunque nel mondo Partiti Maoisti sulla parola, perché in Cina a veder gli effetti della dottrina, non c’era andato nessuno. L’immagine dominante era quella del vecchio Mao che nuotava nel fiume giallo. Dalla Senna, al Tamigi, al Tevere, al Reno ci fu chi tentò di imitarlo. Dieci anni dopo Mao morì, i riformisti ripresero il potere, i tre leader residui della cosiddetta Banda dei quattro che lo avevano affiancato, scomparvero rapidamente e Ten Xiao Ping prese il potere ed avviò le modernizzazioni del Paese.

Quando si  riaprirono le frontiere ai commerci ed al turismo la presa d’atto del folklore cercò di soffocare le immagini tristi della grande miseria sopportata dal popolo cinese con dignità: le baraccopoli per un miliardo e mezzo di persone, le divise grigie, abito abituale, che costituivano il guardaroba di tutti, le infinite biciclette che davano l’impressione del formicaio, i cappelli a tesa larga dei contadini nei campi, i ristoranti che non c’erano perché all’ora di pranzo i cinesi di ogni latitudine si sedevano su un marciapiede a consumare con le bacchette un vario contenuto, affogato in un brodo di dubbia origine.

Chi è tornato in quegli stessi luoghi dopo altri vent’anni, ha trovato favolose megalopoli all’americana, costellate di grattacieli, supermercati, merci di ogni genere, elettronica dominante, abbigliamento variopinto e giovani che parlavano inglese.

Dopo altri vent’anni nei quali l’Europa è stata invasa da prodotti cinesi, anche nella fattispecie di straordinarie imitazioni a basso prezzo, dalla Cina è arrivato il coronavirus confermando la storica tradizione delle epidemie venute dall’Oriente, come l’asiatica anni 60 e la Hong Kong anni 70.

L’abbondanza dei commerci, la facilità delle comunicazioni e dei trasporti, l’export -import molto remunerativo per gli imprenditori italiani, le fantastiche perle turistiche del fu impero cinese, per il conveniente turismo di massa e finanche le Olimpiadi di Pechino del 2008, avevano fatto abbassare la guardia e ridurre le distanze reali. Quando giunse in Europa la notizia della epidemia di Wuhan sembrò una questione estranea al nostro vivere e quando i due turisti cinesi sbarcati a Milano, gravemente ammalati, finirono in rianimazione allo Spallanzani di Roma, finalmente si capì che da Venezia a Pechino non c’erano 2 anni di viaggio a piedi come fu per Marco Polo, ma 10 ore di volo diretto anche con rotta polare.

Il resto è storia recente è ben conosciuta con i 35.000 morti italiani, i due mesi di Lockdown per il nostro Paese, la successiva timida e discussa riapertura della vita civile e delle attività produttive ed il timore della recidiva autunnale. Abbiamo fatto con un certo ritardo, quello che abbiamo imparato a Wuhan, il Lock down, le mascherine, il distanziamento sociale, l’igiene delle mani, lo smart working, la formazione scolastica da remoto, la paura terribile che la sorte crudele potesse toccare a ciascuno di noi, vecchi e giovani, quasi un castigo dell’apocalisse o la punizione per i troppi peccati della nostra società opulenta e permissiva, diseguale e corrotta. A Wuhan sembrava che in tre mesi gli uomini della Sanità del Regime avessero vinto, ossia nuovi contagi zero, poi invece ci sono stati cavalli di ritorno anche in altre città della Cina, compreso Pechino.

L’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità con sede a Ginevra è finita sotto scacco con l’accusa di aver coperto quello che accadeva in Cina nel 2019 e quello che sarebbe successo nei laboratori di Wuhan dove sembra che i  ricercatori trafficavano con i virus per costruirne uno atto a produrre il vaccino contro l’HIV. Sembra anche che il laboratorio fosse finanziato dagli Americani. Le accuse del Presidente USA alla Cina ed all’OMS  sono state feroci, immemori del ruolo finanziario svolto con i finanziamenti per la ricerca.

La matassa delle responsabilità è talmente intricata che viene da pensare che più che reale, essa sia il frutto di fakenews a fini politici. Possibile che la Cina abbia nascosto al mondo un problema così grave che al giorno d’oggi ha causato più di 500.000 morti?

E poi c’è Jan Luc Montagner, premio Nobel per la medicina 2008 per le sue straordinarie ricerche sull’AIDS e la scoperta del virus, il quale ha pubblicamente sostenuto che il Coronavirus responsabile del COVID-19 potrebbe essere involontariamente scappato dai laboratori di Wuhan dove era stato costruito inserendo nello specifico RNA un copioso frammento da quello del HIV, col quale si poteva forse realizzare un vaccino anti-HIV. La sua ipotesi ha però trovato pochi sostenitori nella Comunità Scientifica.

Cineserie, gestite da più parti al mondo! La caccia all’untore si è trasformata nella caccia al colpevole. Guerra politica tra grandi potenze all’ombra delle imminenti elezioni americane e delle rinnovate barriere doganali tra Cina ed USA.

E noi italiani? Impossibile avventurarsi in diatribe di tale livello. Qualche politico nostrano cerca di farlo, ma anche alzandosi sulla punta dei piedi non lo vede nessuno né oltralpe né oltre Po.

Ora con la ripartenza delle comunicazioni in tutto il nostro Paese c’è un serio rischio di recidiva dell’infezione, anche perché qualcuno abusa. Come ad esempio i pugliesi e i calabresi bloccati per tre mesi in Lombardia ossia al centro dell’epidemia, subito partiti per riabbracciare i parenti nei paesi d’origine. Ciò non era successo a Wuhan con altre provincie limitrofe o lontane. Ma noi non siamo cinesi!

Nelle nostre città il distanziamento sociale é di fatto saltato. Possono i ragazzi che hanno ritrovato a migliaia la loro movida, ossia la gioia di vivere la loro età felice, parlare gli uni con gli altri a un metro e mezzo di distanza? E le mascherine? Queste resistono più di ogni altro obbligo, quasi uno status symbol, certo però sarà difficile farci il bagno a mare e costringere i bambini a tenerle quando con l’incipiente stagione estiva si butteranno nelle piscine schizzandosi ed abbracciandosi nelle lotte acquatiche. In Cina, come in Giappone le mascherine le hanno portate sempre, da molti anni, per proteggersi dallo smog urbano della industrializzazione avanzata. Ma noi non siamo cinesi! Lavarsi le mani è stato meglio accetto perchè siamo un Paese ricco di acqua, nel quale l’igiene personale è diventato un bene diffuso e la doccia anch’essa uno status symbol.

Supereremo l’estate con poca protezione e pochi contagi? Non siamo cinesi, ma abbiamo dimostrato nell’emergenza di essere un grande popolo, come altre volte nella nostra millenaria storia.

Dice Montagner  “se il virus è naturale sopravviverà perché frutto della natura e l’epidemia potrà recidivare, se il virus è costruito dall’uomo sarà la natura stessa ad eliminarlo e perciò non ci sarà la recidiva”. Ipotesi illuminata ed interessante, aspettando l’autunno.

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Eugenio Santoro

Presidente Fondazione San Camillo- Forlanini - Roma

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