Questo Natale che viene è diverso dagli altri. E’ il Natale del dolore e della paura. Il dolore per i cari defunti a causa del virus e la paura che ci impedisce di stare insieme in grandi e festose adunate. Ciò non ostante il Natale getta una luce in queste tenebre. Dio viene da noi e ci porta ogni tipo di speranza: dalla guarigione delle malattie, alla felice vita eterna, assieme alla consolazione del volerci bene fra di noi, come testimoniano i doni che ci portiamo. Ripropongo delle considerazioni che ho scritto l’anno scorso perché sono utili a me e anche, spero, al lettore:
La consuetudine di preparare il presepe è estesa in tutto il mondo, ma trova a Napoli un suo speciale radicamento. Edoardo De Filippo ha scritto una tenera commedia che tanti conoscono, Natale in casa Cupiello, in cui si confrontano due mondi. Quello dell’anziano Lucariello fatto di tradizioni, di unione familiare pur in mezzo alle immancabili asprezze derivate dalla convivenza (il figlio viziato e dispettoso che dice: “nun me piace ‘o presepe”) e, in contrapposizione, il mondo moderno in cui si agitano nuove esigenze di felicità egoistiche che generano tradimenti e fratture familiari. Lucariello (pur un mezzo a piccoli contrasti con la moglie che non sa fare il caffè ma resta la regina della frittata di cipolle) è intento a preparare con impegno il suo presepe, mentre intorno si svolge una tragedia di cui non si rende conto: la figlia vuole mandare all’aria il matrimonio e vuol vivere col suo amante, generando tensioni terribili. Quando finalmente Lucariello si accorge del dramma intorno a lui, ne muore. Lo consola il figlio scapestrato, che finalmente ammette: “me piace ‘o presepe”.
Vorrei ribadire che anche a “me piace ‘o presepe”.
Mi piace il Natale e non lo trovo affatto una festa ormai paganizzata: intanto continua a chiamarsi Natale, il che vuol dire che qualcuno è nato. Che poi questo qualcuno sia Dio in persona sta alla nostra fede crederlo: una fede sempre mancante, anche la mia, per cui non mi posso lamentare; posso invece pregare.
Quando si tentò di scrivere la costituzione europea ci fu chi si rifiutò di fare riferimento alle radici cristiane d’Europa. Andreotti senza scomporsi osservò che, comunque, la data bisognava metterla, e la data segna gli anni che ci separano dal Natale di Gesù…
Tante luminarie rappresentano la continuità con la luce che “avvolse i pastori” (Luca 2,9) e con la luce della stella che guidò i Re Magi. Perciò, quando vedo le strade illuminate con decorazioni particolari o il palazzo della Rinascente con una cascata di luci, penso che quelle luci sono la continuazione delle luci che attraggono i pastori e guidano i Re Magi: non stanno lì a caso.
Tutti, pastori e Magi, portano regali e noi ci scambiamo doni per questo. La consuetudine di farsi i regali viene da lì: ce li scambiamo fra di noi ma in realtà sono un omaggio all’amore del Bambino. Scambiarsi doni è il massimo della festa, vuol dire che ritorniamo alla nostra vocazione originaria dell’amore.
I Magi sono costanti e determinati finché non raggiungono la meta, i pastori vanno “senz’indugio” come dice San Luca (2,9) cioè di fretta, così com’era andata Maria a trovare la cugina Elisabetta. Questa determinazione e questa fretta m’insegnano cos’è che conta davvero.
Ho vissuto dieci begli anni a Milano e ricordo che il verbo più usato era ed è: “scappare”. Devo “scappare”. Ma dove scappo? E da cosa scappo? Ecco: i pastori, i Magi e Maria mi fanno capire a cosa tende la fretta vera: cosa vale davvero la pena. Troppe volte sento il bisogno di correre o distrarmi o divertirmi: tutti verbi che alludono al distacco da ciò che ho intorno. Il Natale m’insegna a vedere la profondità delle cose, il significato a cui i fatti e le situazioni alludono. Il Bambino non è solo un bambino, i doni non sono oggetti: sono un riflesso del mio cuore; le luci sono quelle che devono illuminare la mia mente distratta.
Come osserva il Papa, anche la rappresentazione di scene di vita ordinaria nel presepe ricorda il divino nascosto nella mia vita di ogni giorno di cui mi devo accorgere. Soprattutto i presepi napoletani sono ricchi di osterie, mercanzie, scene di vita campagnola, uomini che giocano a carte, massaie dentro le case che sbrigano faccende, luci che fanno intravedere l’interno accuratissimo degli appartamenti, negozi sovrabbondanti di generi alimentari, ponticelli, cascate. Non sono un’evasione di ciò che avviene nella santa grotta ma indicano come la vita di tutti i giorni è contemporanea al divino, non gli è estranea.
A loro volta i personaggi che circondano la Grotta sono una lezione per me. Non pensano a se stessi ma emettono radiazioni d’amore cominciando da Maria e Giuseppe. Persino il personaggio classico di Benino, il pastore che dorme, mi ricorda la mia incapacità di accorgermi della grandezza dei disegni di Dio e mi sollecita a svegliarmi.
Ben venga il Natale di un Dio deposto in una mangiatoia che chiede solo la mia attenzione.
Mi piace il Natale e “me piace ‘o presepe”.
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