Tutto potrà dirsi di Jeremy Corbyn, il leader del partito laburista britannico, tranne che non sia un fantasioso ottimista. Alla vigilia delle elezioni fissate per il 12 dicembre prossimo, con le quali si gioca molto del futuro inglese, dalla Brexit al governo che verrà, Corbyn si è lanciato in una campagna basata sull’aumento delle tasse e della spesa pubblica, arrivando a compiere un ideale salto indietro nel tempo riportandosi al lontano 1946 quando gli inglesi diedero il benservito ai conservatori e al premier Winston Churchill, che aveva guidato il paese nella vittoriosa guerra contro in nazismo e passarono la mano ai laburisti.
Allora, 73 anni or sono, il Regno Unito era sfinito e il suo popolo aspirava giustamente a riprendere una vita che non fosse solo di “lacrime e sangue”. Perciò le elezioni furono vinte dai laburisti che proponevano una politica più attenta ai problemi sociali, costruita sul fondamento di un programma deciso di nazionalizzazioni pagate con titoli di stato.
La situazione odierna appare esponenzialmente differente su più versanti, sul piano internazionale (con il globalismo), sul piano finanziario (con il ruolo fondamentale della City londinese), sul piano sociale (dove sofferenze e costi non sono minimamente raffrontabili con quelli del lontano dopoguerra).
Ma, tant’è! E così Corbyn va imperterrito per una strada che conduce il laburismo verso un bivio, tra una vittoria elettorale, la cui possibilità di successo appare del tutto esigua, e lo schiantarsi contro un muro di irresponsabilità che segnerebbe il declino del laburismo al pari dei movimenti progressisti, socialdemocratici e socialisti come avvenuto nel resto d’Europa.
Aumento delle tasse per imprese e cittadini. Le imposte sui redditi salirebbero al 45% per chi guadagna 80 mila sterline e al 50% per chi arriva a 125 mila sterline.
Poste, energia, ferrovie ed acqua in mano pubblica contro titoli di stato di Sua maestà. Inoltre, le grandi multinazionali (tipo Facebook, Amazon e Google) dovrebbero essere tassate in proporzione ai loro profitti realizzati sull’Isola, e qui Corbyn ha più di una ragione. Manca solo il salario come “variabile indipendente” dalla produzione del reddito, come si proclamava in Italia a metà degli anni settanta del secolo scorso quando iniziò il declino che il Bel paese ancora sopporta.
Quali sarebbero gli effetti di una politica siffatta su quello che è cuore e motore dell’economia britannica? La City londinese gestisce oggi una quota rilevantissima dei flussi finanziari internazionali, tutto resterebbe lo stesso o si aprirebbero canali diversi, tenendo conto che a livello mondiale gli appetiti non mancano e gli occhi sono puntati anche sui centri di controllo inglesi, come la borsa di Londra che ha appena resistito ad un tentativo di acquisto proveniente dall’Est asiatico? Ed anche gli europei, tedeschi e francesi in primis, non si darebbero da fare per soppiantare almeno in parte quella fonte? A meno che il leader laburista non abbia una carta di riserva per ora non dichiarata, del tipo “uscire con la Brexit e trasformare Londra in una sorta di paradiso finanziario, dove nessuno vede e nessuno sa”, la bengodi del capitalismo internazionale.
Se così fosse, la conclusione per i laburisti non sarebbe un “sogno di mezz’estate (o fine autunno) di stampo shakespeariano, piuttosto l’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam.
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