“Un giorno felice” è il reportage di Francesco Tavoloni sulla vita di Paolo Gorgoni, tra i fondatori dell’associazione“Plus. Persone lgbt sieropositive”. Un altro protagonista di questa esperienza, Michele Degli Esposti. Le loro storie sono un manifesto contro lo stigma della discriminazione.
«La medusa è un animale bellissimo ma non si può toccare. È così che mi sono sentito durante i primi anni dopo la mia diagnosi di Hiv». Paolo Gorgoni è nato a Brindisi 35 anni fa. Ora vive a Lisbona, dove si esibisce con il nome d’arte di Paula Lovely. Un’esistenza fatta di complessità e di una continua messa in discussione dello status quo. Una vita che si riassume in “Un giorno felice”. È il titolo con cui il videomaker anconetano, Francesco Tavoloni, ha firmato il lavoro che, dalla sabbia bianca della Costa de Caparica ai colori accesi del pride lusitano, racconta «la metamorfosi di una creatura bellissima».
Il loro incontro nella capitale portoghese risale all’inizio del 2019. Francesco ha seguito Paolo per diverse settimane. Lo ha studiato, osservato e ha poi iniziato a raccontarlo a partire dal «suo ambiente di vita. Volevo documentare, un passo dopo l’altro, la sua trasformazione, la sua fioritura». Non senza fatica. «La difficoltà più grande è stata approcciare una tematica delicata, alla quale mi sono avvicinato da eterosessuale sieronegativo. Dovevo trovare il giusto equilibrio tra la cura del soggetto e l’autenticità del personaggio, rispettandone l’identità». Identità con cui Paolo gioca, con dissacrante ironia, vestendo i panni di Paula. «Paolo è un uomo attratto da uomini. Non ha mai pensato al cambio di sesso. Paula Lovely, però, gli consente di giocare col genere, con l’identità e abbattere la mascolinità tossica a cui la società ci ha abituati». I colori vivi che disegnano il volto e il corpo di Paula, così come raccontati da Francesco, sono l’arma pacifica che contrasta la violenza degli stereotipi di genere e lo stigma di una condizione come la sieropositività. È quello che Francesco ha imparato scrutando da vicino questa meravigliosa creatura. «Con l’Hiv si può vivere e avere una vita, anche sessuale, normale. Bisogna però parlarne, accrescere la consapevolezza, aiutare le persone a abbattere un tabù».
Consapevolezza è la parola chiave di questo racconto. Consapevolezza di sé e del proprio essere al mondo. Consapevolezza è stata la conquista quotidiana che ha portato Paolo a diventare membro del gruppo europeo di trattamento dell’Aids e della commissione deliberativa dell’iniziativa “Lisboa Sem SIDA” del Comune di Lisbona. Prima ancora, un atto di consapevolezza è stata la decisione di Paolo e di altre quattro persone di dar vita all’associazione “Plus. Persone lgbt sieropositive”. Nata dall’iniziativa di alcuni componenti della comunità lgbt di Bologna, dove Paolo ha vissuto, Plus è la risposta al bisogno di colmare un’assenza.
«Quest’anno compiamo dieci anni e non ci aspettavamo di durare e crescere così tanto». Sorride Michele Degli Esposti, un altro dei fondatori dell’associazione, mentre rievoca i due lustri di questa esperienza. Un punto di svolta per quanti Plus l’hanno voluta e plasmata per riempire un vuoto. «Quando ho scoperto di avere l’Hiv, nel 1997, la situazione era molto diversa. Non c’erano le cure attuali. Circolavano i primi retrovirali, ma erano medicinali così pesanti da avere effetti collaterali devastanti». Michele risale con la mente a un’epoca in cui la sigla Hiv aveva i contorni di una lettera scarlatta, oscura e spaventosa. Il sentimento più vivido che torna a galla, da quel tempo, è la solitudine. E la paura. «La prima domanda che si fa una persona con diagnosi di sieroconversione è: “vivrò?”. O meglio: “morirò?”. Di fronte a quell’interrogativo, io ero solo: non potevo dirlo in famiglia e non avevo nessuno abbastanza vicino da raccontare cosa stesse accadendo». Anni dopo, la risposta a quella domanda è arrivata, appunto, dal gruppo di Plus.
«Nel 2021 saranno 25 anni che convivo con l’Hiv. Un secondo compleanno» che celebra una seconda vita. Per Michele, l’affermazione della sua sieropositività ha rappresentato, infatti, un passaggio ulteriore rispetto all’affermazione della propria omosessualità. «Per due volte mi sono guardato dentro, mi sono riconosciuto e, venendo allo scoperto, ho detto al mondo che esisto e sono questo. A volte mi sento dire che ho avuto coraggio. Io dico che ho scelto di essere libero».
“Libero, sano e positivo” come recita una delle campagne informative di Plus. Una delle tante iniziative immaginate per migliorare la qualità della vita delle persone lgbt sieropositive. «Noi lavoriamo per la diffusione di una sessualità consapevole e per l’accompagnamento, anche psicologico, delle persone che scoprono di avere l’Hiv». Un lavoro che non si è fermato nemmeno in piena pandemia. «Dopo il primo lockdown siamo tornati in funzione e continuato a fare informazione, colmando in alcuni casi le lacune della comunicazione istituzionale che riguardano, per esempio, la somministrazione dei vaccini anti-Covid a persone sieropositive».
È stata l’Ausl di Bologna ha sostenere la ripresa delle attività perché uno dei valori aggiunti di Plus è proprio la collaborazione con le istituzioni. A cominciare proprio dall’azienda sanitaria che forma tutti i volontari. «In dieci anni abbiamo effettuato circa 8/9mila test rapidi di verifica di una eventuale sieropositività. In caso di esito positivo, abbiamo un canale di comunicazione diretto con l’ospedale Sant’Orsola. Lì vengono indirizzate le persone che si sono rivolte a noi, per avviare tutto l’iter clinico». E qui i volti di Plus arrivano a fare la differenza. «Ognuno di noi sa qual è la tempesta che si scatena nella mente di una persona che riceve una notizia del genere e i nostri volontari sono formati per contenere emotivamente chi chiede aiuto. Chi ci chiede di non essere lasciato solo». A partire dal giorno dopo, da quando bisognerà varcare la soglia di un ospedale per iniziare una nuova vita. «La prima cosa che ci viene chiesta è di poter essere accompagnati a consulto dai medici. E non ci siamo mai tirati indietro».
Perché l’altra grande conseguenza, insidiosa e subdola, che accompagna lo sviluppo di questa patologia è la solitudine, l’abbandono. Il senso di respingimento. La sensazione di piombare in una voragine senza fondo. «Se il mondo mi giudica sbagliato, allora lo sono. L’altra grande ferita che si apre nella vita di una persona sieropositiva è l’autodiscrimine: sentirsi sporca, malata, infetta per il giudizio degli altri. Noi plussiani fieri diciamo che non è così. Alzare la testa e reagire allo stigma di una società moralista è tanta roba per chi vive con l’Hiv».
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