Un sindacalista di origine marocchina, travolto e ucciso da un camionista 26enne di Caserta. Due vicende, due storie di vita espressione di un Sud globale, tragicamente intrecciatesi in uno dei tanti poli logistici del Nord produttivo. Una sintesi plastica e drammaticamente efficace delle dinamiche di concentrazione e sradicamento che muovono e alimentano i nostri sistemi di vita. Sistemi dei quali la pandemia ha messo a nudo e acuito iniquità e sperequazioni.
Disparità e disuguaglianze che dividono e lacerano le comunità. Approfondiscono le distanze. Scavano faglie che separano i Nord dai Sud. Ovunque nel mondo. Italia compresa.
Di quelle distanze, di quelle faglie e delle loro ricomposizioni, sul piano nazionale, si è cercato di parlare a Villa Nitti, a Maratea. Lo si è fatto, emblematicamente, negli stessi giorni in cui il Paese si è fermato, attonito, dinanzi alle spoglie di Adil Belakhdim. Se ne è parlato alla prima edizione di un evento, “Sud&Nord. Villa Nitti accorcia le distanze”, il cui titolo raccoglie e rovescia gli input dell’opera nittiana “Nord e Sud”, che voleva a definire le prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle spese dello Stato. Un testimone impegnativo e gravoso raccolto proprio mentre a Bruxelles è in corso l’analisi dei progetti contenuti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Un piano che dovrebbe delineare il volto del Paese di domani. Una operazione nella quale non mancano riferimenti scontati al Mezzogiorno, al suo ruolo imprescindibile, alla necessità di un suo rinnovato protagonismo.
Ma è davvero possibile un riequilibrio che risolva o almeno allenti le contraddizioni che hanno innescato la tragedia di Briandate? Non rischiamo piuttosto di fermarci al consueto valzer di ritualità?
A Villa Nitti, nei tre giorni di dibattito su umanesimo digitale e economia della conoscenza, non sono mancate le voci scettiche sul futuro e sull’impatto reale del Pnrr. In particolare alla luce dello stato di fragilità del tessuto formativo e produttivo dell’Italia e del Meridione. Una struttura debole, che indebolisce l’impatto degli investimenti, impedendo di arrestare l’emorragia di donne, uomini e dei loro saperi che emigrano verso Nord. Che senso ha, allora, parlare di ripartenze e di distanze che si accorciano?
Ha senso nella misura in cui questo sforzo arriva proprio dal Mezzogiorno. Con una modalità che prova a rovesciare non tanto gli stereotipi, quanto i punti di vista. E la postura mentale che ne consegue.
Giampiero Castano, Lucrezia Reichlin, Giuseppe Coco, per esempio, nei loro interventi hanno tratteggiato un quadro durissimo dei deficit di cui soffre il Sud Italia. Sia sul piano strutturale che culturale. Dall’altro lato, hanno risposto voci come quella di Alessandro Laterza, che ha stigmatizzato la carenza di visioni politiche e sistemiche in grado di colmare tali deficit. Carenze alle quali i singoli territori e istituzioni, a partire dalla scuola, provano a rispondere coi pochi e inadeguati mezzi che hanno. Come la promozione “regalata” a uno studente ai margini, nella speranza che quel tentativo, indiretto e deficitario, di inclusione possa rallentare, se non arrestare, il suo scivolamento sempre più in basso nella società. Una società priva di reti di sicurezza che possano salvaguardare la sua dignità.
Mettere a confronto certe visioni è fondamentale. Misurare le distanze, talora profonde, che le separano è il modo migliore per provare a colmare i divari. Si tratta di uno sforzo analitico da mettere a disposizione del presente e del futuro.
C’è una nuova generazione di meridionali che si alimenta di uno spirito critico che va oltre le semplificazioni. Una generazione che percorre lo Stivale su vagoni ad alta velocità che insidiano la tenuta della frontiera simbolica che separa il Nord dal Sud. Una separazione che è, in realtà, sempre più insufficiente. Come ha ricordato Giuliano Amato nella giornata di chiusura di questa prima edizione di Sud&Nord, l’Italia è quel Paese lungo, dove in tre ore di viaggio in auto è possibile attraversare infiniti scenari. L’Italia è il Paese della complessità. La complessità sociale e storica. La complessità delle comunità e del loro patrimonio culturale. La complessità geomorfologica che espone la vita dei territori e impedisce lo sviluppo di economie di scala.
L’Italia è il Paese delle piazze e dei campanili, in senso antropologico e storico e, quindi, materiale. Senza comprendere questo, e l’immaginario – a tratti fuorviante e divisivo – che ne consegue, non è possibile analizzare la complessità dei problemi. Né elaborare risposte efficaci a essi. Nemmeno con un piano massiccio di investimenti. Semplicemente perché non vi saranno le chiavi giuste per aprire le porte di quel futuro di cui tutti parlano. Ma che in pochi riescono a vedere. I soldi, da soli, non bastano a generare ricchezza e benessere, o a creare equità e democrazia sociale e economica.
Lavorare da Sud per accorciare le distanze vuol dire, quindi, cercare di andare al di là delle semplificazioni. Dei luoghi comuni. Delle contrapposizioni irrisolte. Vuol dire accettare la sfida di aprire le porte di un mondo nuovo che è già qui e nel quale i Sud e i Nord globali vivono indissolubilmente legati nella stessa vicenda umana.
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