Per lo Stato Pontificio fino al 1870, anno in cui cessò di esistere, i detenuti condannati a pene più o meno lunghe erano un grosso problema. Per la collocazione c’erano gli antichi castelli: rare le carceri di nuova costruzione, come a Roma quella di Tor di Nona, mentre numerosi erano gli antichi castelli, come Castel S. Angelo, che ospitavano i condannati.
Il problema vero era la spesa per il funzionamento del carcere: mantenimento di detenuti e guardiani (gli sbirri) e lo stipendio per questi ultimi, costituivano una spesa che le autorità ritenevano immotivata, in quanto si trattava di denaro pubblico speso a vantaggio di chi aveva gravemente offeso la società con i suoi comportamenti.
Era un modo di pensare non limitato allo Stato Pontificio: Luigi Settembrini, nel raccontare la sua detenzione nei carceri borbonici, parla lungamente del problema della sopravvivenza dei detenuti, assillati dalla mancanza di cibo che sopravvivevano solo grazie a quello a loro portato da parenti ed amici.
A Roma il problema fu risolto demandando alle organizzazioni di beneficenza, che nella roma papale non mancavano, le spese per il mantenimento dei detenuti.
Per gli sbirri, dipendenti pontifici, non si poteva fare altrettanto, se non si voleva che lo Stato perdesse completamente la faccia. La soluzione fu bassi salari e una alimentazione di poco costo che acquietasse gli stomaci senza gravare troppo sulla finanza pubblica.
Per gli sbirri di Castel S. Angelo e degli altri carceri cittadini perno dell’alimentazione fu la trippa, cioè lo stomaco del bovino, che insieme alle frattaglie (cuore, lingua, fegato, polmoni, testicoli, coda) costituiva il cosidetto quinto quarto dell’animale macellato.
Ma veniamo all’antica ricetta della trippa alla romana. Innanzitutto la trippa, la cuffia con tante cellette e la centopelle, più callosa, venivano lavate accuratamente con speciali spazzole ed una volta pulite, messe a bollire lungamente, finchè le callosità della carne non erano diventate morbide.
A questo punto i pezzi di trippa venivano tolti dall’acqua di cottura e messi in una pentola in cui bolliva un sugo di pomodoro piuttosto acquoso, di cui pomodori, sedano e cipolla, erano gli ingredienti, insieme ad una abbondante quantità di menta romana (la cosiddetta mentuccia). Iniziava una nuova cottura, più breve della prima, fin quando il sugo non si era ristretto (circa mezz’ora).
A questo punto il pranzo dello sbirro era pronto. Una pagnotta di pane accompagnava un mestolo di trippa fumante, resa appetitosa dalla mentuccia, un’erba spontanea che non costava nulla e di cui era possibile abbondare.
A Roma è un cibo che piace ancora, forse anche perchè molto economico: la trippa alla fiorentina, identica ma con l’aggiunta di una salsiccia sbriciolata costava troppo per uno sbirro che aveva però il privilegio, a differenza dei detenuti, di avere qualcosa da mangiare insieme alla pagnotta. Altri tempi, altra cucina, ma la ricetta è ancora valida.
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