Editoriale Local

A Roma l’ATAC va in fumo

Prendere l’autobus a Roma, oggi, fa venire in mente quello che cantava er Sor Capanna, stornellatore romano:

“chi adesso monta in tranve o gente mia
Sarebbe mejo prima d’annà drento
Che dasse un bacio a tutta la famia (famiglia n.d.r.)
E doppo poi lasciasse er testamento”

Ma lui lo scriveva un centinaio di anni fa, quando i tranvi erano agli albori della loro vita. Oggi ci aspetteremmo qualche cosa di più. Il condizionale è d’obbligo, perché la tragedia del trasporto pubblico nella capitale non era mai stata così grande come ora.

Autobus che non arrivano, autobus che prendono fuoco (60 in un anno e mezzo), autobus che si rompono in piena corsa (non si contano). Per non parlare della metropolitana: stazioni restano chiuse per mesi e mesi – quella di piazza Barberini un anno – perché c’è magari una (UNA!) scala mobile rotta, o perché, come nel febbraio 2019, ha fatto marcia indietro (stazione Policlinico) provocando la caduta dei passeggeri. O addirittura non c’è il personale – è successo il 20 novembre 2020. NON C’E’ IL PERSONALE? E dov’era? A letto con il covid, a spasso, a fare sesso nell’auto di servizio come i vigili scoperti il 23 novembre 2020?
E poi scale, tapis-roulant, ascensori e piattaforme elevatrici: un disastro. Come dimostra la disavventura nel febbraio scorso, di un giovane disabile che solo con l’aiuto di altri passeggeri è riuscito a transitare da una linea all’altra alla metro di Termini, perché non c’erano ascensori funzionanti. L’Atac si è scusata parlando di “criticità dovuta a infiltrazioni d’acqua dall’esterno”, ma intanto nella stazione principale di Roma, su 7 ascensori presenti, 4 sono fermi. I soldi per la manutenzione ci sarebbero, denuncia il consigliere Pd capitolino Zannola: 425 milioni stanziati dall’ex ministro (2015-2018) Delrio. Inutilizzati.

Già, la manutenzione. E’ dei giorni scorsi la foto fatta dal corrispondente della Reuters Crispian Balmer, che ha fatto il giro del mondo, coprendo di vergogna la capitale. La scala mobile della stazione di Villa Borghese, chiusa perché soffocata dalle erbacce al punto di confonderla quasi con i prati confinati. L’assessore ai trasporti spiega che l’amministrazione comunale non c’entra. Quella scala è in concessione ad una società privata e il comune non reputa la sua manutenzione una priorità. Lasciamo che la natura faccia il suo corso.

Foto di Crispian Balmer – Reuters

E certamente ora la priorità è data dal covid. E dal rischio assembramento. Oltre il 25% delle 6.438 fermate autobus disseminate su tutto il territorio del Comune di Roma corre questo rischio. Il quotidiano La Repubblica ad agosto 2020 riportava una preoccupata analisi dell’agenzia della Mobilità: il 40% dei 115 mila iscritti ai licei e agli istituti tecnici della capitale abita in un quartiere diverso rispetto a quello della scuola che frequenta. Ovvio che sia obbligato a prendere l’autobus. Senza contare chi non ha la patente o la macchina, chi non può permettersi di usarla per andare a lavorare, chi non può raggiungere il posto di lavoro con l’auto. Eccetera eccetera eccetera. I bus non possono girare a pieno regime perché – giustamente – ci deve essere il distanziamento. Risultato: muoversi nella capitale è un inferno.

Il governo nel novembre scorso ha stanziato 300 milioni per utilizzare gli autobus privati che stanno fermi nelle rimesse, dato che il turismo è a zero. Le regioni ne hanno utilizzato neanche la metà. A Roma il Comune fatto anche di peggio. Sono arrivati 70 bus granturismo per lavorare su 7 linee (più o meno verso le periferie). Si chiamano linea S. Uno sta più comodo, i sedili sono più larghi, di velluto, il distanziamento è rispettato. Che si vuole di più? Si vorrebbe, per esempio, accorgersi che ci sono. Alzi la mano chi ha saputo che da novembre il trasporto pubblico è stato incrementato. Le paline segnaletiche sono piccole, spesso distanti da quelle che indicano i normali autobus. Le fermate non facili da trovare. Ma la pecca più grossa è quella della non visibilità: sul cristallo anteriore c’è un foglio di carta grande quanto quello di una normale stampante che indica la linea, uno deve guardare proprio bene per sapere che c’è. Sulle fiancate, idem: quasi invisibile su quei mastodonti, ma soprattutto confuso tra le scritte, il logo e i colori del tour operator.
Uno, due, tre, si parte… no, come non detto.

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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Tag: roma

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