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Adriano Olivetti non era un utopista

Adriano Olivetti non era affatto un utopista, ma un industriale serio, che si rendeva ben conto dell’arretratezza culturale della maggior parte degli industriali italiani del tempo e tentava strade nuove tentando di dare un senso al lavoro.

Egregio Direttore,

ho letto con vivo interesse le pagine che l’Ing. Giorgio Garuzzo, già alto dirigente della Olivetti prima e della Fiat poi, ha dedicato alla figura di Adriano Olivetti, formulando, nel rievocare quegli anni ormai lontani alcune considerazioni che mi permetto di non condividere.

Una premessa forse è necessaria: ho conosciuto Adriano Olivetti durante il brevissimo periodo di tempo in cui fu deputato (non senatore) ed ho avuto modo di incontrare molti dei personaggi che erano con lui nel Movimento di Comunità, alcuni poi seguitarono ad occuparsi di politica: ricordo Franco Ferrarotti che gli subentrò alla camera dei deputati e poi fu rieletto nella successiva legislatura con le liste del partito social democratico a Torino.

La premessa mi è parsa necessaria per la ragione di alcune mie convinzioni tratte dai ricordi di quegli anni. Adriano Olivetti non era affatto un utopista, ma un industriale serio, che si rendeva ben conto dell’arretratezza culturale della maggior parte degli industriali italiani del tempo e tentava strade nuove, pur mantenendosi nel solco del paternalismo industriale dei Crespi, di Leummann, dei Rossi di Schio e via dicendo o se si preferisce del socialismo umanitario di Trampolini. La sua era una proposta industriale che tentava di dare un senso al lavoro, non al lavoro dell’uomo, non solo segmento di una macchina produttiva come nel Taylorismo-Fordismo tanto caro ad Agnelli e a Pirelli, tanto per fare qualche esempio.

Olivetti non era un utopista

Si circondò di intellettuali come Renzo Giorgi, pubblicò nelle edizioni di Comunità saggi che nessuna casa editrice del tempo avrebbe mai pubblicato, attenta al profitto più che alla diffusione della cultura neo capitalista: fu quasi naturale che si conquistasse in questo modo le ostilità più  o meno aperte di molti grandi industriali italiani. Il meno che dissero di lui fu che era un utopista, sottintendendo con questa qualifica che non fosse nemmeno un industriale, ma sicuramente era fuori dal mondo industriale, erede di una mezza azienda certamente non presente nel firmamento delle stelle dell’industria italiana.

E’ a mio avviso a questo punto che inizia la controffensiva: per quanto ho letto in proposito l’avventura americana di Olivetti, quando ad Adriano erano subentrati gli eredi, fallì perché la grande industria italiana fece del tutto perché ciò avvenisse, anche attraverso accordi con industrie statunitensi e ciò malgrado gli sforzi di Marisa Bellisario che tentò fino all’ultimo di dare un senso positivo a quella avventura.

Tanto era chiaro per gli addetti ai lavori l’ostilità ad anelli concentrici che aleggiava attorno ad Olivetti che quando morì per un infarto, mentre viaggiava in treno, qualcuno avanzò persino il sospetto che non si fosse trattato di una morte naturale, come quando perderà la vita, in uno strano incidente stradale, il suo geniale progettista.

Adriano Olivetti si rendeva ben conto di questa ostilità, che in Italia passava anche attraverso la DC, il partito di maggioranza relativa, sponsorizzato dalla destra economica, consapevole degli scarsi risultati che avrebbe ottenuto fidando sui piccoli partiti, da quello liberalo a quello social democratico: si fece eleggere deputato per avere un diritto di tribuna in parlamento e se ne andò educatamente quando si rese conto che era un abbaiare alla luna. L’Ing. Garuzzo vorrà scusarmi se a questo proposito dissento da quanto lui afferma a proposito dell’errore compiuto da Olivetti nel farsi eleggere in parlamento, accomunando in questa valutazione negativa, anche la sua successiva esperienza di Umberto Agnelli: a mio avviso non c’è alcun rapporto tra i due fatti, tanto diverse furono le ragioni che indussero i due industriali a presentarsi candidati al parlamento italiano.

Non credo che, come l’Ing. Garuzzo afferma, il grave errore di Olivetti sia stato quello di circondarsi di intellettuali che “furono dannosi” per l’azienda: ritengo invece che essi contribuirono, attraverso l’adozione di iniziative culturali che ebbero vasta risonanza, a far emergere le arretratezze del mondo industriale italiano agli inizi degli anni ’60. Furono quei pazzi, industriali, politici, scrittori, giornalisti a spingere per l’apertura a sinistra della formula di governo, con l’ingresso del PSI nella maggioranza nel 1964. Sei anni dopo lo Statuto dei Lavoratori, voluto fino agli ultimi giorni della sua vita dal Ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini: segnò il punto di partenza per il riconoscimento dei lavori e dei diritti di chi lavorava.

L’Ing. Garuzzo afferma che quella legge fece diminuire la produttività: se lo afferma sarà certamente vero, ma mi permetto, che ne conseguirebbe che una produttività più elevata è legata ad una più scarsa propensione a riconoscere i diritti di chi lavora.

A sessanta anni di distanza dalla morte di Olivetti il capitalismo italiano (nei limiti in cui non si è autodistrutto, come nel caso dell’industria chimica), non è ancora riuscito a divenire un capitalismo moderno che investe e rischia, non confida in iniziative paternalistiche aziendali per celare la sua debolezza strutturale, accetta la logica del mercato e non predilige le scorciatoie dell’aiuto pubblico, magari per sistemare, con il suo sostegno, qualche debito troppo elevato.

All’inizio degli anni ’90 “Mani Pulite” mostrò agli italiani non solo gli errori dei politici ma anche della grande industria italiana che li aveva favoriti, se non incoraggiati. Doveva essere la grande occasione per un nuovo corso industriale: basta aprire i giornali per rendersi conto di quanto non è successo.

Credo, caro Direttore, che il libro dell’Ing. Garuzzo, da cui è tratto il brano pubblicato su Moondo sia, a parte i motivi di dissenso che ho indicato, estremamente utile per comprendere le dinamiche interne alla grande industria italiana, nei cui errori affondano le radici anche gli attuali guai.

Formidabili quegli anni, direbbe Mauro Capanna, quando i metalmeccanici in sciopero sfilavano a Roma per rivendicare i loro diritti, contro il lavoro degli operai scomodi alle piazzole, i sindacati gialli, la schedatura dei “pellerossa” e via dicendo. L’amara verità, egregio Direttore, è che forse abbiamo perso tutti, ma la responsabilità non è uguale.

Cordiali saluti e grazie per l’ospitalità.

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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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