La comunità scientifica condivide oggi l’opinione che l’alimentazione debba essere considerata come linguaggio quindi forma e mezzo di comunicazione all’interno di una famiglia, di un nucleo sociale, di una fascia d’età, di una società, di una etnia, di una fede religiosa.
E’ giusto pensare al rapporto del lattante con il latte materno, ai riti ed alle tradizioni popolari che si snodano attorno alla tavola, al bisogno che hanno gli emigranti di conservare la propria identità culturale consumando i pasti che rispettino la tradizione gastronomica del paese d’origine.
Questa identità non si limita alla scelta dei cibi ma si estende alla tecnica di preparazione e agli stessi utensili, all’arredo della tavola, agli orari, alle modalità di presentazione delle portate, alle posizioni da assumere per consumare il pasto.
La valutazione economica o quella strettamente nutrizionale non è sufficiente a darci conto di tutto ciò che c’è dietro l’alimentazione. Bisognerà fare i conti con la memoria visto che le tradizioni alimentari sono considerate come tradizioni “orali” e che “le tecniche di preparazione sono soggette agli stessi fenomeni della letteratura orale quindi all’oblio, malinteso, improvvisazione imprecisione, semplificazione, adattamento e mescolanze” (Renée Valeri).
Quando parliamo di alimentazione parliamo di cultura, spiritualità, simbolismo. La stessa gastronomia è un fenomeno creativo che dovrebbe ottenere le credenziali filosofiche visto che il piacere è il parametro della sua fiunzione (Jean-Paul Aron).
Questo piacere non nasce da una semplice casualità ma risponde ad un criterio di logica quello che regola l’accostamento dei cibi, la produzione degli odori e di altri stimoli per gli altri sensi così da creare un’atmosfera mistica. Altri pensano che il cuoco si comporti con le vivande come il musicista che sviluppa un tema, ripresentandole in più modi, come nelle grandi composizioni romantiche (Jean-Paul Aron).
Per altro verso in Italia le varietà culinarie riflettono anche le divisioni politiche se facciamo riferimento alla scaloppa di vitello alla milanese, fiorentina o bolognese o all’infinita varietà delle pizze. Una rivoluzione continua in questi ultimi anni, ha coinvolto tutti i settori dell’alimentazione: la produzione, oggi condizionata in gran parte dall’industrializzazione delle colture e degli allevamenti, il mercato – vedi la delocalizzazione e “destagionalizzazione” del cibo il consumo cosi strettamente legato alla pubblicità e alla organizzazione commerciale, ed infine lo stesso comportamento alimentare sia dal punto di vista socio culturale che delle patologie correlate.
Altri aspetti di questa rivoluzione riguardano per esempio il consumo dei pasti in casa e la ristorazione collettiva. Chi mangia in casa può rinunciare facilmente ai fornelli perché nel freezer del supermercato ha scelto cosa mangiare attraverso l’imballaggio, il packaging, la confezione, cibi che saranno pronti in tavola con la rapidità con la quale esce la foto stampata dalla Polaroid. Cosi gli aromi sprigionati dalle vivande, definiti a volte odori a volte puzze, che come inalanti messaggeri annunciavano un pasto appetitoso non si apprezzano più, varcando il portone di casa, salendo le scale. Il frigorifero è un armadio che può presentarsi alla vista vuoto o stipato di confezioni e di avanzi protetti da un involucro trasparente.
Scrivono Anceschi e Becchetti che “il packaging è divenuto il mezzo che rende comunicabili le misteriose gerarchie attraverso le quali il prodotto organizza la propria presenza e la offre al consumatore, un mezzo che, in altri termini costringe la fluidità esperenziale dell’alimento nei caratteri costanti dell’oggetto-merce. Ci sono poi un’infinità di prodotti che senza l’imballaggio non esisterebbero affatto.
Alberto Capatti ha illustrato con grande competenza ed illuminata maestria il variare dei luoghi dove popolani e borghesi ma anche i ricchi perché no-, hanno scelto di mangiare e bere fuori casa. Basta scorrere le parole mescita, bettola, osteria, taverna, fiaschetteria, buffet, grill room, birreria, panineria, snackbar, ristorante per fare un percorso storico di straordinario interesse. Oggi si mangia un piatto di spaghetti in tutti i bar sia al dente che precotti da una industria “di marca”. La sera le strade danno accesso a più pizzerie che portoni di casa e la lista delle pizze è la stessa ovunque a Roma, Canicattì, Hannover, il triangolo d’oro, Malindi.
Non basta mangiar fuori per la lontananza della casa dal posto di lavoro presentando alla cassa i tickets ma si mangia fuori anche la sera perché l’esigenza della socializzazione prevale sulla soddisfazione del bisogno di nutrirsi e fa passare in seconda linea sapere cosa si mette sotto i denti. Si può anche farsi tentare dalla curiosità di un viaggio gastronomico all’estero data la molteplicità, a Roma come a Milano dei ristoranti etnici, dove si possono consumare cibi esotici peraltro indefinibili.
Abbiamo di recente condotto in collaborazione con Xenia Caruso un censimento dei ristoranti etnici a Roma e ne abbiamo contati 349 dei quali 10 di tradizione ebraica, 40 per la cucina latino-americana, ben 240 dell’area asiatica, 18 del subcontinente indiano, 7 dell’area africana, 34 dei paesi arabi.
Che dire poi del vino, frutto delle conoscenze e della tecnica, segno concreto di civiltà che fin dall’antica Grecia, ma ancora oggi separa in modo esemplare il piano della natura da quello della cultura (Paolo Scarpi). Vero è che il vino appartiene al mondo del “superfluo” e del “festivo” così che il suo ruolo simbolico è sempre prevalso nel passato remoto, su ogni altra funzione (P. Scarpi). Oggi il vino ha acquistato una dimensione commerciale che ha snaturato in parte la sua funzione. Non c’è paese al mondo che non coltivi la vite e non riesca a piazzare il prodotto in ogni enoteca.
Sarà opportuno ricordare e sottolineare un altro aspetto sociologico che, oggi come ieri, riguarda il ruolo del cibo per stabilire e rinforzare i legami di solidarietà all’interno delle comunità. Dividere il cibo con altri, ostentarlo per ottenere prestigio. Scambio e divisione hanno acquistato oggi una dimensione fortemente politica, mentre l’ostentazione ha raggiunto modalità e livelli paradossali a fronte di uno spreco anch’esso di dimensioni industriali. Negli USA associazioni di assistenza hanno prodotto un possibile menù di cibi raccolti dai poveri nella spazzatura e di consigli igienici per consumarli!
Il tema dell’alimentazione è quindi assai fertile d’inesauribili occasioni di studio e di analisi che in un interessante crescendo si propongono e ripropongono all’attenzione di una tipologia di specialisti e cultori assai eterogenea. Al di là di fenomeni prettamente speculativi la cultura dell’alimentazione ha bisogno di rinnovarsi continuamente perché è suscettibile di adattamenti alla cultura del contesto umano. Produzione consumo e gastronomia sono strettamente legati all’ambiente, alla economia, alla tradizione dei popoli che dall’alimentazione traggono fonte di vita, salute prosperità. L’uomo a differenza dell’animale compie delle scelte alimentari che sono determinate dalla sua intelligenza e dalla sua cultura cosicché anche il sapore dei cibi è sapere.
Tutte le variabili che possono essere prese in considerazione sono soggette a continue modificazioni che condizionano o si fanno condizionare vicendevolmente dalla politica dei governi così come abbiamo occasione di constatare ogni giorno. Anche la gastronomia, secondo Massimo Montanari a volte rimane fissamente ancorata alla tradizione, a volte se ne dissocia compiendo deviazioni, balzi in avanti, trasgressioni, innovazioni che non sono motivate dalla casualità ma che sottendono all’evolversi della cultura. E ancora lo stesso Autore riferisce il pensiero di Fernand Braudel secondo il quale “i minimi avvenimenti della vita quotidiana non siano immobili ma evolvano in un tempo molto lento, il tempo lungo delle strutture” (su Capatti).
Tutte queste considerazioni possono spiegare come lo studio dell’alimentazione si caratterizzi per la sua trasversalità nel vasto campo delle discipline scientifiche ed umanistiche offrendo a tutti gli studiosi opportunità di confrontarsi e dibattere.
La scienza dell’alimentazione si è occupata nel recente passato di denutrizione fissando l’entità del fabbisogno calorico per tutte le fasce d’età e per tutti i tipi di lavoro intellettuale e manuale. Solo negli ultimi anni ci si è resi conto che il cibo nutre l’anima oltre che il corpo, possiede una valenza socio-culturale di primaria importanza se pensiamo alla sua capacità di comunicazione, affettività, testimonianza della storia che va ben oltre il suo ruolo di fornitore di nutrienti.
“Dimmi come mangi e ti dirò chi sei”, “je mange donc je suis”, “l’uomo è ciò che mangia” sono aforismi oggi noti a tutti, piccoli esempi di come ormai il cibo abbia travalicato il significato di nutriente. E’ oggi convinzione condivisa che il piacere di mangiare possa favorire la buona salute perché le scelte gustative influenzano positivamente la sfera affettiva che attraverso il sistema neuroendocrino mantiene in buona armonia la mente ed il corpo.
Vero è quanto scrive Massimo Montanaeri che “una certa storia dell’alimentazione fa parte della cultura di base di ognuno” ma è quanto mai necessario che la Storia faccia ordine ponendo i fatti al posto giusto. E lo faccia tenendo conto non solo ed esclusivamente delle date ma di tanti elementi di giudizio che sono l’ambiente, il livello culturale, l’economia, la politica, la religione, la psicologia, la tradizione, le patologie emergenti non necessariamente legate al deficit vitaminico e altro ancora. Per questo giustamente gli storici dell’alimentazione rivendicano la centralità del loro oggetto di ricerca e la propria posizione strategica che permette di abbracciare con un colpo d’occhio tutte le variabili possibili (M. Montanari). La grande occupazione della nostra società si concentra, oggi, sulla “alimentazione sana”.
Le diete così dette dimagranti drastiche soddisfano il bisogno di chi vuole tutto e subito- e comunque intese, al di là dei modelli troppo spesso solo lucrativi e truffaldini, fanno aumentare di peso. Il grasso che si riacquista dopo una dieta dimagrante sembra avere lo scopo di equipaggiare il soggetto per la incombente possibile carestia (Udo Pollmer). Dieta nella cultura corrente vuol dire regime ovvero rigidità della scelta alimentare regolata dal calcolo delle calorie e da selezione di cibi. La dieta intesa in questo senso è quella che riguarda il paziente diabetico o quello con l’insufficienza renale o quello con una patologia digestiva grave. Le persone presunte sane non debbono accedere a dieta. Per loro si parla di “stile di vita” che rappresenta la traduzione elegante, ma per alcuni di difficile comprensione, della parola greca “diaita”.
Se guardiamo indietro al nostro recente passato ci rendiamo conto che è stato raccomandato un apporto calorico eccessivo rispetto alle necessità effettive. Non si è tenuto conto della progressiva diminuzione della spesa energetica dovuta alla perdita dei movimenti (uso dell’automobile, dei cellulari, dell’ascensore etc). Poi siamo passati a riflettere sui danni alla salute dalla pollution e dall’agricoltura industriale per cui abbiamo favorito con buoni motivi l’alimentazione sana fatta di equilibrio tra proteine, grassi e carboidrati, fatta anche di cibi così detti biologici: non ci rendevamo conto dell’impatto che questi suggerimenti avrebbero avuto sulla popolazione bombardata dai mass media. E’ stato facile arrivare all’eccesso facendosi condizionare talmente dalla preoccupazione di mangiare sano, come accade nella “ortoressia”, un disturbo del comportamento che attende ancora una verifica scientifica ma che ma che trova riscontro, a torto o a ragione, sulla carta stampata.
Udo Pollmer riferisce di un articolo pubblicato sul NYTimes a firma di Gary Taubes, noto giornalista scientifico, nel quale si sostiene che l’epidemia di obesità in corso è una conseguenza dell’informazione alimentare. Ciò giustifica movimenti d’opinione molto attivi – basta citare Slow Food – che tendono a restaurare, in Italia e non solo, la priorità del “gusto” ed a ricordare con fermezza che mangiare e bere sono esigenze fondamentali della nostra biologia, e che regimi e restrizioni alimentari imposti nell’adolescenza da modelli dissennati fa solo del male. Una sana biologia saprà trovare il giusto equilibrio, la ragionevolezza dell’approccio con il cibo. Gli adolescenti crescendo non saranno vittime di una sorta di sindrome da astinenza o di deprivazione ma sapranno alimentarsi intelligentemente come hanno visto fare dai propri genitori. Ci sarà sicuramente una percentuale di adolescenti che per motivi genetici o per ragione di patologie emergenti potranno esse costretti a regimi particolari ma questo non deve essere un motivo sufficiente a castigare la stragrande maggioranza creando una visione distorta del proprio rapporto col cibo.
Un discorso diverso è invece quello dell’alimentazione dell’adulto che vittima degli errori dietetici commessi è andato incontro a patologie per le quali è necessario suggerire comportamenti alimentari ragionevoli e tendenti a riportare il soggetto in una situazione di compenso. E’ un approccio sempre difficile perché deve tener conto che il soggetto sano è fatto di corpo e di mente e che per riportarlo ad un compenso bisogna restaurare il cosiddetto stile di vita senza imposizioni dottrinali deleterie. Si tratta di aiutarlo a fare una ragionevole revisione del proprio rapporto con il cibo forse usato solo, in una situazione ambientale inadeguata, come farmaco della propria fragilità piuttosto che come occasione di piacevole condivisione dell’esperienza. Si mangia ciò che piace perché sono i sensi che informano la nostra affettività e nutrono la nostra cultura.
Mangiare tanto o troppo poco non dovrebbe passare inosservato ma dovrebbe porre delle domande. Mangiare tanto o troppo poco non ha nulla a che fare con un buono stile di vita: Il gusto si forma mangiando: Il bambino non nasce con il gusto già formato ma crescendo compie un’esperienza fantastica scoprendo i sapori e fissandoli nella memoria. Naturalmente questa esperienza è mediata dai genitori che non impongono autoritariamente l’apprezzamento del sapore proposto ma fanno si che l’esperienza sia condivisa e quindi accettata volentieri.
Non è buono ciò che è buono ma ciò che piace. Il piacere deve essere proposto dal modello genitoriale tenendo presente che l’apprezzamento del gusto dovrà essere associato alla conoscenza di ciò che si mangia. Al cane o al gatto non interesserà sapere ciò che mangia, da dove venga, come sia stato preparato quel che trova nella ciotola, né vorrà sapere il menù. D’altra parte mentre gli animali cercano il cibo per le sole proprietà energetiche, gli uomini soddisfano il bisogno del cibo attraverso convenzioni ed equilibrio di valori che sono il fondamento del menu. Anche il menu alimenta la storia dell’alimentazione perché varia nel corso dei secoli e si differenzia nelle varie etnie. Al bambino non si dovrebbe imporre un cibo che non ha una storia perché mangiare è un atto intelligente e l’intelligenza ha bisogno di cultura. L’atto del nutrirsi è apparenza fisiologico e materiale ma nella sostanza culturale e simbolico. Il resto verrà da se.
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