Non si capisce se sia un destino o sia semplicemente un comportamento indotto dalla resilienza femminile da che i generi si sono differenziati nel corso dei secoli.
Perché anche in questa ultima e drammatica circostanza, ovvero il malefico COVID19, il contributo delle donne all’andamento della cura e della prevenzione, nonché alla normalizzazione di una quotidianità anormale, si è dimostrato incontrovertibile e necessario in Italia come nel mondo.
Ci sarà un futuro che farà i conti, oltre che con i numeri, con la storia delle persone in questa pandemia. Ci faranno i conti il mondo della scienza, quello della politica e quello della sociologia. Ci faranno i conti i sopravvissuti che ne trasmetteranno la memoria. Ci faranno i conti i bambini e gli adolescenti che hanno visto improvvisamente interrotte le certezze del loro mondo.
E ci faranno conto, ancora una volta in modo diverso, le donne.
Ma cominciamo dall’inizio.
Tutto è iniziato in Cina da cui è partita la pandemia che si è sviluppata successivamente in ogni area geografica. Apparentemente nulla ci lega a questo paese tranne la dipendenza economica per molte aree di mercato. Eclatante e scandaloso il ruolo (positivo-negativo) che essa ha svolto nella distribuzione di mascherine di protezione.
Nient’altro ci accomuna. Né storia né cultura né politica né modo di vivere.
Purtroppo un punto di congiunzione, sia pure con caratteristiche differenti di peculiare arretratezza, è la questione della mancanza di parità di genere.
Ma, in occasione degli ultimi fatti, qualcosa è successo ed anche la Cina, il primo paese colpito drammaticamente dal Coronavirus, ha dovuto dichiarare al mondo che “le donne sono normalmente più capaci di conquistare la comprensione e la fiducia della gente comune durante un periodo di crisi, anche se dobbiamo ammettere che spesso in Cina tendiamo ad affidarci agli uomini nelle situazioni di crisi nazionale, pensando erroneamente che la loro apparente maggiore aggressività li renda più capaci di prendere decisioni scomode e difficili” (Hu Xingdou, politologo).
Un ammissione tardiva e che nulla toglie alla responsabilità storica di questo paese di avere a suo tempo (1979) emanato una “Legge eugenetica e protezione salute finalizzata al controllo delle nascite per risolvere il problema della sovrappopolazione che costrinse la popolazione a non avere più di un solo figlio, operando sostanzialmente una selezione della ‘specie’”.
Una scelta che in quella cultura portò a considerare quasi una maledizione, una sciagura, partorire una femmina perché “per una famiglia cinese avere una sola femmina significa vedere la propria dinastia estinguersi”. Non fu un caso che allora sparirono oltre due milioni di bambine, uccise appena nate.
D’altronde la Cina, che afferma di essere un doppio sistema, capitalistico da un lato e comunista dall’altro, non ha mai praticato la cultura della libertà.
Ma anche in altri Stati, dove la parola “libertà” viene usata ed abusata, la cultura della parità non ha ancora raggiunto risultati esaustivi.
In ogni caso la visione che permane del genere femminile è quella di soggetti differenti, utili ma non essenziali. Neanche la storia dello sviluppo umano, il ruolo che in essa hanno svolto, nelle grandi crisi sociali ed economiche, nei tempi di guerra, di ricostruzione, della politica, tutto ciò non è riuscito a rendere giustizia di questa concezione arcaica che ha pervaso la società moderna del 900 fino ad oggi.
A smentire la loro subalternità, in questa emergenza le donne hanno impersonato una sorta di multitasking su cui fare affidamento.
Nel passaggio tra lavoro tradizionale e nuove tecnologie-metodologie, la donna mantiene, in un equilibrio forzato, il carico di lavoro esterno con quello di accudimento familiare e domestico. I grandi limiti, oggettivi e soggettivi, dello smartworking sono rappresentati dalla mancanza di spazi idonei e dall’essere soggette ad invasioni di campo.
Lo stress fisico e psicologico che ne deriva s’indirizza ancora una volta verso un ambito irrisolto, quello della medicina di genere.
Ciononostante la ricerca di soluzioni e la gestione emergenziale del fenomeno pandemico in corso, sia a livello scientifico che politico, è stato messo in mano quasi esclusivamente ad uomini. “I problemi sono altri” si conferma la frase più utilizzata da sempre come giustificativa all’indifferenza sfacciata verso l’universo femminile, alla incapacità di considerare i generi come un tutt’uno sullo stesso pianeta.
Né migliore è il comportamento dei media che si crogiolano di apparizioni di virologi, politici ecc., rare le apparizioni di donne, anche di quelle che avrebbero molto da dire nel merito. Altresì, esse, hanno assunto nei decenni, e in parte conservato, un atteggiamento responsabile, pacato e sobrio al limite dell’invisibile, pur quando si tratti di questioni e contraddizioni che si scaricano sulla loro pelle. Un cambiamento sulle modalità per richiedere l’attenzione necessaria dovrà essere ripensato anche dalle donne.
Un esempio dello scarso realismo della politica sono le ancora indefinite proposte per l’accudimento dei bambini in questa fase transitoria e prevedibilmente nella successiva. Ovvero se ne parla, ma concretamente le soluzioni per ora indicate appaiono approssimate e timide. Il lavoro da casa si è dimostrato già nel passato un rischio, una forma di sfruttamento indotto che non ha favorito la donna. Nell’impossibilità di sovrapporre il lavoro di mercato con quello di cura, molte di esse sono state indotte all’autolicenziamento.
La miopia dell’ “attività” politica mette in evidenza l’indifferenza verso una soluzione realistica e praticabile del “gender gap”, sia nella gestione del potere che nelle proposte di fattibilità. La stessa politica che troppo spesso si è dimostrata indifferente e sorda alle proposte e alle prassi richieste da associazioni, movimenti, territori, scuola e società, rappresentanze del mondo femminile maturate tramite una profonda esperienza.
Purtroppo, alla politica “alta” delle nomine, degli interessi di gruppi-partiti, il fatto che la ricaduta del doppio lavoro pesi solo su un genere poco importa. Come poco importa che, nel passaggio tra lavoro tradizionale e nuove metodologie, la donna rappresenti una fonte “forzata” di equilibrio, un filo di congiunzione tra passato e futuro nei cambiamenti da attuare all’interno della famiglia e dei suoi componenti.
La constatazione “saltuaria”, e si ringrazia, che le donne ci sono e si rendono necessarie per tenacia e competenza, non può essere gratificante per nessuna. Soprattutto perché questo riconoscimento è sempre stato collegato a momenti di dolore sociale: guerre, pandemie, emigrazioni ecc., ovvero occasioni “speciali”. Come se nel momento del benessere generale esse non fossero comprese alla pari di tutti gli altri.
Banalmente, come ormai tutti/e si compiacciono di affermare, questi drammi collettivi, come quello che stiamo vivendo, necessitano un ripensamento complessivo che li consideri anche un’opportunità per rivedere i meccanismi decisionali, per cambiare il sistema dei valori sociali, per superare discriminazioni ed azzerare le disuguaglianze, accorciare il gap di genere come quello generazionale, accettare che sia necessario ripensare la “politica”.
Mettere tutte le forze in campo. Lavorare ancora di più tutti/e insieme nella necessità di guardare al futuro del mondo ed al rispetto per l’ambiente in cui vivere accettando i confini che la natura ci impone. Per il momento, però, tutto è rinviato ad una data che non c’è.
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