Pubblichiamo un’intervista ad Antonio Ferraro, di intervsita di Viktorie Ignoto, gentilmente concessaci in uso dallo stesso nostro collaboratore.
D.- Alla luce della sua lunga esperienza cinematografica a cosa pensa sia dovuta, oggi, questa tendenza al “politicamente corretto” del cinema italiano?
“Bisogna, probabilmente, fare vari passi indietro ed allargare la visuale per comprendere la deriva “correttista” (per dirlo con un neologismo) del nostro cinema. Sappiamo che il politically correct nasce negli Stati Uniti e, se volessimo arbitrariamente stabilire una data cinematografica di inizio, potremmo indicare il 1970, l’anno di uscita di Soldato blu e di Piccolo grande uomo, che segnano la fine del western tradizionale come epopea del pionierismo americano, per far posto ad un ripensamento critico di quella storia vista dalla parte dei nativi e dei loro diritti annullati dai colonizzatori (qualcosa del genere aveva già fatto John Ford con Il grande sentiero ma in quel film prevale il senso di rispetto per il nemico vinto da parte di vincitori cha hanno la storia dalla propria parte).
Questa lunga premessa, accompagnata dalla constatazione che i due film citati erano – soprattutto il primo – piuttosto noiosi, serve a chiarire che il politicamente corretto (ben diverso, è bene chiarirlo, dall’impegno civile e politico che è alla base di molte opere d’arte) non è certo un’invenzione né italiana, né recente.
Non è però un mistero che, sin dai tempi di Togliatti, il P.C.I. si sia adoperato per acquisire egemonia nel mondo della produzione culturale e del cinema (poi della fiction) in particolare. Nel cinema, però, per molto tempo si sono dovuti fare i conti con le produzioni e con il mercato: molti autori, anche di sinistra, dovevano comunque assicurare alle proprie opere buoni incassi (per vari anni unica e ricca fonte di guadagno dei film) e quindi piegare, sanamente, le proprie convinzioni ai gusti ed alle esigenze dell’allora vasto pubblico pagante.
Successivamente, il prevalere dei diritti televisivi e l’arrivo di sovvenzioni pubbliche a vari livelli, ha spostato l’attenzione dei produttori e degli autori al gradimento (prevalentemente politico) di chi acquisiva i diritti e di chi decideva quali opere finanziare. Anche questo non è un fenomeno solo italiano ma qui da noi, la forte presenza di personale nato da una costola dell’ex-partito comunista ha dato una caratterizzazione all’intera produzione che in altri paesi non è certo cosi invasiva.”
D. – Ci è stata insegnata, nelle scuole, una visione progressista della storia. Tuttavia, se il progresso sociale si misura in base al senso di libertà intellettuale (che non può non essere accompagnata, come lei ha scritto, dal senso dell’umorismo) come siamo messi, oggi?
“Da questo punto di vista, direi piuttosto male. Come lei sottolinea, la scuola, in ogni epoca, tende (per conformismo, per pigrizia) a venir meno al proprio ruolo principale: quello di fornire ai ragazzi gli strumenti cognitivi e le premesse culturali e scientifiche per potersi formare, liberamente, le proprie opinioni e fare le proprie scelte senza condizionamenti.
In ogni epoca molti insegnanti hanno adottato la scorciatoia di fornire alle menti dei loro allievi pensieri pre-masticati: I promessi sposi si esaurivano, negli anni ’50, in un tronfio e trito discorso sulla Provvidenza, la tempestosa storia di millenni di guerre e conquiste veniva, nel post ‘68, messa da un canto per banalità da Miss Italia sulla pace del mondo o sui guasti dei perfidi colonizzatori occidentali.
Se, però, si perde il senso della Storia cosa rimane? Direi nulla in un magma indifferenziato in cui le piccole monomanie da intellettuali da parrocchia diventano l’unico metro di conoscenza del mondo e tutta l’arte viene rivisitata con i paraocchi di chi non sa far altro che acquattarsi all’ombra della vaga ideologia momentaneamente preminente.
Qualche tempo fa Baricco promosse una rilettura dell’Iliade espunta degli scontri guerreschi: sicuramente era un tentativo culturale di ripensare il capolavoro di Omero ma come non notare che è un po’ come togliere le scene di sesso da L’amante di Lady Chatterley, le parolacce dall’Ulisse, o le lunghe descrizioni di colori, odori e sensazioni dalla Recherche?
Nel cinema (e nella fiction della Rai in maniera insistita) sta succedendo qualcosa del genere: si stanno facendo largo quasi solo opere con contenuti appoggiati sul pensiero unico prevalente.
Quel che è peggio è che le nuove generazioni – anche nelle fasce che dovrebbero essere aperte a qualunque sollecitazione intellettuale – si stanno darwinianamente adattando alle nuove regole: per fare un esempio, un mio amico, preparatissimo docente universitario di cinema, mi racconta che, alla visione del geniale Il vedovo (capolavoro di umorismo di Dino Risi) il commento dei suoi studenti è stato: “Ma questo film istiga al femminicidio!” Siamo, ormai, alla farsa tragica!”
D. – Dai suoi saggi, in cui descrive le vicissitudini ideologico-politiche degli scrittori Pelham Grenville Wodehouse e di Jorge Luis Borges, sembrerebbe un problema assai ricorrente nella storia.
“E’ certamente vero che i due scrittori, fra i massimi del pur ricco ‘900, hanno subito ostracismi per ragioni assolutamente estranee al loro valore artistico: Wodehouse rischiò l’esilio dall’Inghilterra perché, durante la sua prigionia in un campo di concentramento tedesco, aveva accettato – nell’assoluta buonafede del suo carattere poco incile a confrontarsi con la realtà – di fare delle scherzose radiocronache del campo come se fosse un luogo di vacanze; Borges – pur universalmente riconosciuto come grandissimo poeta e scrittore – non ebbe mai il Nobel, per essere stato Direttore della Biblioteca Nazionale Argentina (e chi meglio di lui con la sua vastissima cultura?) durante il regime di Vileda e per essere andato – nella sua veste di profondo studioso – a fare un ciclo di conferenze in Cile al tempo di Pinochet.
Loro però hanno avuto difensori di primordine anche nel campo formalmente a loro avverso: a favore di Wodehouse intervennero Evelyn Waugh e George Orwell e per il Nobel a Borges si spese il “comunista” Pablo Neruda. Non vedo, in Italia e in questi tempi, una simile onestà intellettuale.”
D. – Che rapporto intercorre tra la tendenza all’umorismo e il senso di libertà? Perché sono considerabili come segno di dinamicità culturale? In che modo, secondo lei, possiamo riconoscerlo nella commedia italiana?
“Anni fa Moravia, in un suo articolo su L’Espresso, scrisse – citando non ricordo quale saggista francese – che l’umorismo è sempre reazionario. Il senso dell’affermazione, ovviamente, non era letterale ma si evidenziava come chi voglia rivoluzionare il mondo non sia portato a riderne ma piuttosto a considerare tragiche le caratteristiche che un umorista troverebbe unicamente ridicole.
Per lo stesso motivo, i bravissimi Age e Scarpelli, intervistati da anziani dichiaravano che L’Unità criticava le loro sceneggiature e – da comunisti – facevano quasi una sorta di triste e tardiva autocritica. Pure, la commedia all’italiana, della quale sono stati maestri indiscussi, ha avuto, tra gli altri, il merito di sottolineare a pubblici vastissimi – sia pur nella veste di satira – i mali sociali del paese di allora.
Il risultato che abbiamo oggi sotto gli occhi è una simil-commedia, quasi sempre priva di spunti che destino almeno un sorriso, ma piena di tutto il bric-à-brac del politicamente corretto: gli immigrati sono tutti buoni e simpatici, i ricchi un po’ stronzi, le donne toste e combattive e via banalizzando.”
D. – A chi si occupa di cinema e spettacolo, viene insegnato il rispetto nei confronti del pubblico. Il pubblico non mente, giusto? Lei ha preso come esempio “il geniale Zalone”. Perché, allora, “Tolo Tolo” ha incassato 20 milioni meno di “Quo vado”?
“Perché il sistema non è stato con le mani in mano. Zalone è l’ultimo dei grandi della comicità italiana e, come si suoi illustri predecessori (Totò e Sordi in testa), ha incentrato i suoi personaggi su quella caratteristica – tipica della grande Commedia dell’Arte – che il sociologo inglese Edward C. Banfield aveva chiuso nella definizione di “familismo amorale” (senza addentrarci in approfondimenti sociologici, è un po’ quella che il titolo di un film di Sordi chiamava L’arte di arrangiarsi o l’idea di Flaiano di scrivere “tengo famiglia” al centro del tricolore).
Il Checco dei film era un bravo ragazzo, pieno di tutte le manie del meridionale tipizzato: ingenuo e furbo, mammone e un po’ maschilista, profittatore e parvenu. La grandezza dell’autore era una costante capacità di aderire al personaggio e, nel contempo, di guardarlo con affettuosa ironia.
Equilibrio delicatissimo che l’intervento di Virzì (ottimo autore ma estraneo a qual mondo) come supervisore alla scrittura di Tolo, tolo, ha sconvolto: ne è venuto fuori un ibrido, tutto proteso a sottolineare le ragioni dell’accoglienza, nel quale il personaggio principale sembra una pallida caricatura dell’allegro e un po’ incosciente Checco dei grandi successi. Un vero e proprio spreco.”
D. – Sempre nel suo saggio, ribadisce che “gli intellettuali giocano col trenino”, ovvero, che “con la scusa che il gioco è complicato e delicato, si impadroniscono del trenino dei figli per giocarci per ore e ore”. Coi figli, allude forse agli attori della civiltà stessa, il cui “diritto al gioco” viene spesso e volentieri complicato?
“Si. Penso a tutto quel complesso, fragile e precario mondo della creatività che viene messo in un angolo dai chierici del pensiero unico. Attenzione però: non è solo in gioco la bella favola del mondo fantasticato e ricreato dagli artisti, quella a cui si sta attentando è la nostra libertà, la nostra possibilità di scegliere. Mettendo a tacere le voci libere, la satira, l’umorismo, la sana “anarchia” di chi dà voce alle proprie istanze profonde, si distrugge un mondo, con la stessa iconoclastia dei fondamentalisti che radono al suolo vestigia di civiltà secolari.
E’ la democrazia che è in gioco poiché il fondamento di questa è la libertà che la civiltà occidentale – tra mille inciampi – ha saputo sinora esprimere.”
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