A pensarci bene ha ragione Daniela. Siamo solo uova. Siamo tutti soltanto delle uova, o per lo meno lo siamo stati. Non dico prima di nascere, chiusi nell’incubatrice che la natura ha creato, questo è ovvio, ma anche dopo. Restiamo in parte uova fino a che il nostro ruolo all’interno del sistema sociale non sia diventato la meta della liberazione del talento che è in ciascuno di noi.
Tutto dipende da cosa si intenda per nascita: venire al mondo biologicamente o trovare il proprio posto all’interno della comunità in cui si vive. Daniela Pareschi dà a uscire dal guscio, questo secondo significato e offre alla nostra riflessione una visione dell’identità che non ha niente a che fare con la natura e la biologia, ma con la cultura che una comunità esprime per ciascun essere vivente che ne fa parte.
Filosoficamente parlando siamo di fronte alla spiegazione in immagini del concetto di “persona” che esiste in quanto determina e definisce l’ambito delle funzioni che ciascun individuo possiede in rapporto alla vita sociale. La natura dell’uomo può essere la stessa per ciascun soggetto, ma la persona umana è unica in quanto anello nella catena di attività e di funzioni che definiscono la vita collettiva. Lo sapevano bene i Greci che dedicavano alla persona tutti gli sforzi possibili per la sopravvivenza e la prosperità della polis, l’unica cosa che interessasse loro per il futuro.
Forse è meglio che io vada per gradi per non rischiare di perdermi e di far perdere il filo al mio paziente lettore. Sto parlando di un libro che oggi vorrei invitarvi a leggere e a far leggere ai vostri bambini, un libro che mi ha tenuto sveglio a riflettere tante sono le cose non scontate che contiene anche se, apparentemente, racconta una storia che è tra le più note e tramandate dalle mamme e dalle nonne di tutte le latitudini. Il Brutto Anatroccolo, così si chiamava la favola che Hans Cristian Andersen scrisse intorno alla metà dell’ottocento. Una storia di discriminazione e di riscatto di riconoscimento e di rivalsa che riguarda una comunità di “pennuti” che devono aver acquisito dall’uomo alcuni difetti della vita in comune, altrimenti non si spiegherebbe, una metafora che Andersen scrisse per esorcizzare il suo stesso essere messo ai margini di una società che poi lo celebrò come un grande talento. Ma questa è una delle storie che possono ripetersi, che diventano archetipi dei comportamenti umani, e che possono essere usate come antidoti o catarsi di possibili tragedie. Miti, sempre attuali, che non hanno un dove e un quando; anche una comunità di anatre al momento della cova va benissimo a raccontarle. Questa storia è proprio una di quelle, tanto nota che è totalmente inutile che io ve la racconti. Ce la racconta, invece Daniela Pareschi nello splendido libro illustrato a cui l’autrice ha tolto l’articolo il facendo diventare Brutto Anatroccolo la possibile misura di ciascuno di noi e il suo riscatto finale, lo scopo di una vita.
Questa volta Daniela agisce da regista della storia: non la tocca, ma la mette in scena in un modo da restituirgli il ruolo mitologico che merita, la interpreta nel senso vero del termine, la veste di una componente impalpabile che la rende eterna solo se il lettore entra in sintonia con lei e la sua matita colorata. La parte geniale della rappresentazione sta nell’idea di mettere in testa al brutto anatroccolo un mezzo guscio d’uovo che copre la sua faccia. Ma sarà davvero così brutto come lo descrivono le anatre? Viene da chiedersi. “Era così brutto da sembrare quasi bello” scrive Biagio Russo nella revisione del testo di Andersen che perfettamente si adatta alla nuova messa in scena, brutto perché diverso, bello perché fuori dagli schemi attesi.
Chi è diverso dallo stereotipo sociale è bello o brutto? L’inatteso emoziona o fa paura? Una dicotomia che rimanda alle leggi della rappresentazione teatrale, allora bello o brutto sono aggettivi che dipendono solo ed esclusivamente dalla cultura e dall’approccio contestuale che ciascun lettore ha nei confronti della storia per la quale il regista costruisce la via d’accesso. Daniela Pareschi lo sa fare, pagina dopo pagina, costruisce un modo di vedere la bruttezza attraverso una lente diversa da quella dichiarata dalle anatre, ma senza imporla.
In fondo, dal loro punto di vista, non avevano torto, l’anatroccolo non era come loro e tanto basta per escluderlo dalla comunità, la loro strategia è chiara: diverso uguale brutto, diverso uguale pericoloso, diverso uguale altro da sé. Sembra di sentire un grido alzarsi dalle pagine: “prima le anatre!!!!!” (che sarebbe una sciocchezza pari a “prima gli italiani”) facendoci immaginare per un momento che personaggi delle favole e politici della cronaca di oggi potessero inseguirsi per dare al libro una forza paideutica ancora maggiore.
Allora non dimentichiamo, cari amici con le penne che vivete nelle favole, che l’olocausto fu provocato da qualcuno che aveva pensato che solo le aquile avessero il diritto di volare gettando l’Europa nella più grande tragedia della sua storia. Al contrario la coesione che viene dalla diversità produce le moderne democrazie e è la spina dorsale dello stato di diritto in cui è la legge ad essere al di sopra di qualsiasi assolutismo. Esistono strutture dello stato elettive ed altre a cui si accedere per merito o per titoli. In uno stato di diritto nessuna anatra potrebbe mai estromettere l’anatroccolo brutto dicendogli: “canditati alle elezioni e se le anatre ti voteranno avrai un ruolo anche tu”, no, perché lo stato di diritto non è costruito solo intorno ai parlamentari eletti. Esistono carriere che non sono elettive e che sono parte della organizzazione statale: le forze armate, la magistratura, la sanità. Io per esempio, se fossi in un ospedale pubblico, mai mi farei operare da un chirurgo che fosse stato eletto a suffragio universale. Allora, per far capire ai nostri bambini cosa siano i diritti e cosa significa l’aggettivo “inalienabili” che la nostra costituzione usa, questo libro è straordinariamente efficace, la messa in scena della storia spinge verso la costruzione del diritto alla cittadinanza più di quanto non faccia il semplice racconto originale che porta i segni, pur importanti, della sola lotta alla discriminazione.
Brutto o bello che sia, il nostro piccolo eroe uscito da un guscio troppo grande per essere normale non lo si vede mai in faccia, c’è sempre un guscio d’uovo a nasconderla e non permettere a nessuno di sbirciare le sue smorfie di tristezza e di delusione. Il guscio, questa è la genialità, è al tempo stesso una maschera teatrale che ha la duplice funzione di creare un archetipo riconoscibile anche in altri contesti, lo dicevo all’inizio: siamo stati tutti uovo e dare alle forme ed alle pose del corpo il ruolo di veri attori. Senza l’espressione del viso saranno il becco e le ali a diventare significanti in una costruzione della messa in scena in cui predomina l’equilibrio instabile delle forme in un intreccio visivo di una eleganza esemplare.
L’uovo nella mente di Daniela è la forma primordiale di vita prima della conquista della propria identità. Splendida la pagina in cui nove uova diverse, forse pianeti di un sistema solare a noi sconosciuto, sono pronte a generare uccelli diversi ciascuno con la loro propria funzione sociale nella biosfera. Vista da fuori questa pagina rappresenta la comunità in cui la storia vive prima che la storia cominci, ma vista da dentro impone a quegli strani pianeti di forma ovale la regola che il loro equilibrio dipende dalla mutua attrazione reciproca, la mancanza di uno solo di loro potrebbe significare il collasso.
I Pianeti lo sanno, anche le uova lo sanno, ma una volta diventati uccelli rischiano di acquisire quegli stessi difetti che hanno fatto dimenticare all’uomo di essere una comunità la cui solidità e coesione si basa sulla solidarietà proprio come quella dei pianeti. L’uovo torna nella rappresentazione scenica della ri-nascita dell’anatroccolo poco prima della sua completa consapevolezza di sé e del suo essere cigno, Daniela la dipinge magnificamente come ancora racchiuso in una forma uovo. Se fosse un film quello sarebbe il fotogramma che precede il gran finale, la rinascita di quello che un tempo fu Brutto Anatroccolo, la seconda dopo quella naturale: quella culturale quella della coscienza civile quella della ricerca della felicità che nella antica accezione greca era eudaimonìa cioè coltivazione e liberazione del proprio talento, l’istante del trauma, quello che cambia l’equilibrio che credevamo stabile e duraturo e che ci porta in una nuova dimensione. È ancora una metafora bellissima, è il meccanismo della conoscenza che cambia le forme e mette le ali. Tutto è mutazione, nulla è scontato, ogni equilibrio è temporaneo ed instabile, anche quello su cui è costruita una stamberga dove il nostro piccolo eroe si rifugia che è dipinta sospesa su gambe troppo sottili per poter essere stabile con i panni stesi al sole più grandi della casa stessa, “stava in piedi perché non sapeva da che parte cadere”, come la ricerca del sapere, funzione vitale di ogni comunità e soffio che unisce le pagine di questo libro. Anche le cose inanimate in questa scenografia straordinaria sono alla ricerca della loro identità pronte a schiudersi e a liberarsi del proprio guscio pagina dopo pagina, una salubre contaminazione per i piccoli lettori aiutati dai grandi che non proveranno meno piacere alla lettura del libro.
Il Libro: Daniela Pareschi Brutto Anatroccolo Lavieri Edizioni
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