E’ necessario ragionare come ha fatto Roberto Giachetti sul Foglio e Daniele Fichera su Moondo seguendo i buoni consigli di Giuliano Ferrara
C’è in giro una gran voglia di egoismo, il mondo si sta racchiudendo in sé stesso, la nostra società si sta frantumando in tribù, ma soprattutto in movimenti per oggi e senza domani, esplode la rabbia dei nuovi poveri, e i bottegai abbassano la saracinesca, il nuovo genera insicurezza, al di fuori di casa non c’è nulla che conti.
Di pari passo l’era tecnologica, emergono nuovi protagonisti sociali, c’è voglia di utopia. Le grandi paure suscitano grandi sentimenti, si schiudono i sentieri della speranza, nuove frontiere della riforma, per la conquista di un’immancabile futuro. Torna il popolo a riempire le piazze e si sente la piacevole brezza della democrazia. E il ricordo degli anni ruggenti. Vale la pena di riflettere su quella stagione liquidata in fretta a suon di monetine, ritessere una tela strappata e rileggere le pagine dei buoni libri. Per dire basta con la cultura del pessimismo, la storia di ieri e l’evoluzione di oggi – in una nuova ricerca culturale – ci offrono possibilità ancora immense.
C’è in giro una gran voglia di famiglia e aumenta il distacco dall’attività politica che ha perso la sua carica ideale per vestire i panni angusti del business. Ma ogni fenomeno nuovo elimina il presente e lo trasforma automaticamente in passato da superare con la conquista insostituibile del futuro.
Il progresso nasce nel seno stesso della nostra società: dobbiamo coltivare l’ottimismo della ragione, del nuovo, del si sta meglio oggi perché è già domani, un domani che in virtù della diffusione del sapere, della scienza, della tecnologia non trova altri esempi nella storia dell’uomo. Insomma il mondo sta cambiando e si prepara un domani, ed è questa la nuova utopia, non più dominato dalla paura del male fisico, come libero dal male è, nella storia mitologica, il paradiso terrestre.
Non abbiamo bisogno né di uno Stato che assiste, né dello Stato programmatore. Se il primo ci ha portato alla bancarotta, il secondo è miseramente naufragato trent’anni fa. Ciò che ci hanno consegnato settant’anni di democrazia è uno Stato impiccione come una lavandaia, intrusivo e chiacchierato come una vecchia prostituta, autoritario quando non ce n’è bisogno e assente ogni volta che sarebbe necessario; in definitiva di questo Stato così com’è sarebbe meglio fare a meno, al suo posto ci vorrebbe uno Stato garante, uno Stato il cui intervento in economia non si realizzi gestendo imprese ma per sostenerle, finalizzato – governando il mercato del lavoro – alla occupazione.
Una nuova civiltà si annuncia, il digitale. Non deve favorire forme di schizofrenia, ma liberare l’uomo dal lavoro rendendogli la possibilità di governare il suo tempo per un migliore rapporto con se stesso e con il mondo che lo circonda, animali, alberi, cose ed esseri umani compresi. Non è un’utopia visionaria, ma una chiara indicazione di tendenza.
All’alba del nuovo millennio il vento del cambiamento ha fatto piazza pulita delle ideologie ma ha trascinato via anche quello straordinario patrimonio culturale che è la cultura liberaldemocratica e la tradizione del socialismo riformista e liberale. Una cultura in cui le redini dello Stato hanno assicurato in tutti i Paesi dell’Europa Occidentale un livello dignitoso di sopravvivenza a ciascun cittadino, l’istruzione obbligatoria, le cure necessarie, e anche la possibilità di esprimersi al meglio, lasciando libertà d’azione e di iniziativa ed il diritto di godere del merito e di soddisfare il bisogno.
Dobbiamo ritessere la tela, riannodare i fili che sono stati strappati per governare il presente dell’Europa verso modelli di società in cui il lavoro e il patrimonio delle conoscenze, definiranno fra i cittadini, e fra questi e le istituzioni, il potere di scambio all’interno della società. Che la democrazia sociale sia qui ed oggi la migliore forma politica possibile è opinione diffusa. Una scelta forte se vincolata ad una definitiva opzione europeista.
Un ideale consorzio delle forze di progresso, al di là degli Stati, deve lavorare ad un progetto di Europa unita accettata dai popoli prima ancora che dalle istituzioni. Una impresa, di grande portata sociale, culturale e politica, che potrebbe restituire al continente quella forza di cui ha bisogno un mondo equilibrato e di pace. La corsa al futuro non passa soltanto attraverso uno smartphone, ma attraverso idee e progetti, e la capacità di forgiare con esse la storia.
La qualità e la ricchezza della politica sono elementi ancora più preziosi in un’epoca di transizione e il loro recupero è necessario e urgente, poiché è necessario avere una cultura e un progetto per fare argine alla violenza del nuovo capitalismo finanziario e garantire quei diritti individuali e sociali che si sono conquistati con il welfare, il popolarismo cattolico, il riformismo socialista e attraverso un conflitto regolato e mediato dai sindacati e dai partiti. Una cultura di governo per costruire il futuro.
Perché il problema numero uno è governare. E quindi progettare lo sviluppo, il cambiamento e quando necessario la trasformazione. E’ necessario un ideale collettivo, un’aspirazione morale. E una classe dirigente all’altezza del compito. Come camminare in avanti, come non tornare indietro verso soluzioni conservatrici, verso la première gauche frontista e opportunista o la deuxième velleitaria e inconcludente del secolo scorso, questo è il problema che ancora non ha una soluzione. Per i riformisti.
Dar vita ad un “rassemblement” delle formazioni riformiste di cui vasti strati del paese sentono l’esigenza: una alleanza per il lavoro e il progresso.
Non un partito perché strutturato diversamente dalle formazioni politiche tradizionali, che rinunci alla tradizionale paralizzante struttura leninista in favore di una organizzazione orizzontale, i cui partner conservino la loro autonomia e capacità di autodeterminazione, in cui l’apparato centrale non sia che un centro di coordinamento non vincolante nei confronti degli alleati. Con un comun denominatore: interprete delle istanze laburiste del Paese. Attraverso un confronto aperto al di là dalla forza demoniaca degli stemmi e delle bandiere. L’adesione all’alleanza non costringerà nessuno all’abiura perché essa verrà fondata sulle conformità, sulle convergenze, lasciando ognuno libero delle proprie opinioni e padrone della propria storia. E coloro che saranno eletti nelle liste dell’alleanza saranno obbligati a rispondere solo ai cittadini che li hanno votati, come del resto sancisce la Costituzione della Repubblica. L’operazione non ha nulla a che vedere con forme di opportunismo politico perché non mira a conservare posizioni preesistenti. È un modo pratico e coraggioso per interpretare la voglia di un diverso modo di fare politica che i cittadini esprimono oggi con la simpatia o l’adesione a movimenti nuovi che si creano intorno a singoli personaggi.
L’alleanza potrà formarsi solo su un valore forte, attuale e pragmatico come il lavoro, un valore storico in cui si concentrano le tradizioni migliori della cultura politica della democrazia repubblicana determinante per proiettare la nostra società nel futuro.
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