C’era una volta un film, molto popolare e divertente, nel quale Massimo Troisi e Roberto Benigni, piombati nel passato verso la fine del mille e quattrocento, quasi mille e cinque, si rendevano conto di poter cambiare gli eventi futuri intervenendo sul loro nuovo presente. Decisero perciò di impegnarsi per impedire che Cristoforo Colombo partisse alla scoperta dell’America. Il loro impegno era chiaro, costruire per noi un futuro senza jeans, senza chewing gum, senza flipper o jukebox, vita tranquilla, dunque, al passo con le tradizioni di sempre. Dimenticarono di dire, i nostri due comici, che quel futuro sarebbe stato senza patate, senza pomidoro, senza tabacco e senza cioccolato. Le nostre tradizioni oggi, non sarebbero le stesse.
Ho cominciato affrontando il tema da questo punto di vista perché, mettiamocelo in testa, se “mangiare” può essere l’origine di infiniti racconti, è contemporaneamente un racconto in sé che rappresenta ed esemplifica uno spaccato della nostra civiltà. Non mi fraintendete, non sto dicendo di raccontarci le ricette o come si compone un piatto, per questo basta e avanza la noia televisiva. Sto proponendo di vedere la storia dell’uomo da un punto di vista insolito.
L’agricoltura, per esempio, è un racconto. Prima l’uomo raccoglieva quello che cadeva per terra, lo strappava dagli alberi muovendosi continuamente per cercare nuova sussistenza e climi migliori dove vivere. Si fa presto a dire poi si è messo a coltivare, una parola! Per coltivare qualcosa bisogna innanzi tutto stare fermi nello stesso posto per aspettare che cresca quello che si è seminato, e già questo era contrario delle abitudini dei nostri antenati, bisogna decidere di vivere in comunità, bisogna dividere il lavoro da fare e attribuire compiti diversi a ciascuno, bisogna organizzare, bisogna provare, sbagliare, memorizzare, comunicare a qualcun altro quello che si è scoperto riuscendo o sbagliando. Eccola la parola magica: scoprire. L’uomo ha cominciato a scoprire e non ha mai smesso di farlo. L’agricoltura non è un passo nella storia dell’uomo, è una rivoluzione copernicana nel modo di concepire la vita sulla terra e un pezzo determinante nella evoluzione dell’uomo, contiene in sé quel po’ di necessità di pensiero astratto che ha fatto poi la differenza con le altre specie animali. Vista oggi, è anche un modo per rappresentare i modi della nostra civiltà e della nostra memoria collettiva.
La memoria sovverte qualsiasi aspettativa, è rivoluzionaria, la memoria. Chi ricorda lo fa camminando all’indietro, e camminare all’indietro a volte conviene. Si parte da ciò che è più vicino per risalire verso le cose lontane. Le Muse facevano questo di mestiere, noi oggi li chiamiamo musei. Raccontavano e per questo inducevano gli uomini a raccontare, e, cosa ancora più importante ad intrecciare i ricordi tra loro, a portarli lontano nelle loro continue migrazioni, a incastonarli nella vita facendone i ricordi di altri. In questo modo si può ricordare anche ciò che non si sia vissuto. Dai ricordi si sviluppano altri ricordi, il passato si chiarisce nel presente e chiarendo il passato si può intravedere il futuro. Pensate ai cantori, agli indovini, agli aedi dell’inizio della civiltà mediterranea. Erano rappresentati ciechi non perché lo fossero, ma perché l’assenza della vista delle cose vicine conferiva alla mente la possibilità di spaziare, di andare oltre, di immaginare, di confondere realtà e invenzione per illuminare solo la verità, fine ultimo di ogni racconto. Provate a chiudere gli occhi, dicevano a quei tempi, e vedrete quello che è accessibile solo alla vostra immaginazione. Era cieco Tiresia, cieco Demodoco alla corte dei Feaci, era cieco anche Omero secondo la tradizione. Ecco, allora, una necessità contemporanea: creare un luogo in cui il presente, quello che è sotto i loro occhi, sfugga affinché siano gli occhi della mente a vedere ciò che ad occhi aperti si può solo guardare. Vedere per capire il presente e pianificare il futuro. A quel luogo vorrei arrivare, uno spazio per la nostra memoria.
Ulisse è l’eroe della memoria e Omero inizia il suo racconto invocando la Musa affinché gli detti le storie di quel viaggio e del ritorno e finisce con un colpo di genio che mette insieme cibo e memoria in un modo che ha lasciato il segno. Ve lo racconto.
Ulisse ha ormai ripreso il controllo della sua isola, la strage di chi voleva impadronirsi del suo regno è compiuta con l’aiuto degli dei e il nuovo ordine civile deve essere riconosciuto ed accettato da tutti. A questo punto Omero introduce una vicenda privata come specchio di quella pubblica, come farà Platone nella Repubblica e Shakespeare nell’Amleto. Ulisse si incammina per incontrare il vecchio padre, Laerte, ritiratosi in campagna nel suo dolore di genitore e di re. Lo vede, curvo e mal vestito, appesantito dall’età e dal dolore, lo vede piangere a dirotto. Solo allora mosso a compassione fa il grande passo e si rivela. L’aspetto, il tempo, l’età, ha cambiato entrambi, e poi non è facile per uno sconosciuto farsi passare per il nuovo legittimo re, troppo facile. Lo deve convincere, dopo tante sofferenze il sospetto è legittimo. Noi lettori moderni ci chiederemo: ma come fa un padre a non riconoscere il figlio, basterebbe uno sguardo, l’odore, un suono. No, tutte cose troppo terrene e troppo vicine, buone forse nella realtà, ma non in un racconto. In un racconto il solo presente non basta. Omero opera una geniale invenzione da grande regista: Ulisse, per farsi riconoscere, racconta al padre come da piccolo gli fu insegnato proprio da lui a piantare peri, meli, fichi e vite per ottenere filari ricchi e rigogliosi.
Fanciullo io ti seguia con ineguali / Passi per l’orto, e or questo arbore, or quello / Chiedeati; e tu, come andavam tra loro, / Mi dicevi di lor l’indole, e il nome.
Solo allora Laerte lo riconosce e lo abbraccia. Capite il genio? Il padre riconosce il figlio attraverso il sapere che gli ha trasmesso. La conoscenza fa prendere coscienza di sé, e quella conoscenza era legata ai segreti dell’agricoltura, alla sussistenza, certo, ma alla ritualità. E’ l’ultimo libro dell’Odissea, ma non gli ultimi versi. La pace è tornata nel regno e Ulisse ordina sia preparata una cena. Questo il finale dell’Odissea. Il racconto di tutti i racconti finisce a tavola. Ve lo ricordavate?
Tutta immaginazione, direte voi. La Storia, quella con la S maiuscola non fa eccezione. Una volta ricordo di aver letto su di un libro che i Normanni, con l’aiuto della Repubblica Pisana, cacciarono gli Arabi dalla Sicilia. Questo dice la storia. Cacciarono i capi, i comandanti, i governanti, certo, ma i cannoli no, per fortuna sono ancora li se qualcuno avesse dubbi sugli influssi che restano a definire per sempre i caratteri delle civiltà. Dalle storie sul cibo e dalla sua preparazione si ricavano molte informazioni. La nascita e lo sviluppo della città medioevale, il disboscamento forzato ai limiti delle cinte urbane, così ben rappresentato nei grandi affreschi da Lorenzetti a Benozzo Gozzoli, hanno creato campi da coltivare, legna da ardere e materiale da costruzione. La popolazione urbana aumentava e si concentrava all’interno delle mura, serviva più cibo, un diverso modo di coltivarlo e di allevarlo, di venderlo nei mercati, di celebrarlo gridandone le qualità più forte degli altri per far arrivare alle orecchie un profumo prima del sapore. Proprio quello che venne in mente 700 anni dopo a Raffaele Viviani quando scrisse uno dei suoi capolavori senza testo, utilizzando solo le grida dei venditori di cibo nella stazione marittima di Napoli. Migranti. Ancora uomini che partono, memorie che si intrecciano, storie da preservare.
Sarebbe il caso che qualcuno cominciasse, istituzionalmente, a raccogliere e a rilanciare tutti questi racconti e a costruire nuove forme di racconto a partire da quelle tradizionali, sarebbe un modo diverso di metterci di fronte ai modi della evoluzione della nostra civiltà.
Quello a cui penso è un museo in senso etimologico, alla casa di una musa, che sia un luogo da visitare, da vivere, e che al tempo stesso raccolga, coltivi, allevi ingredienti e cucini storie da servire in modo digeribile, soddisfacente e nutriente. Cibo per la mente, insomma che sia aggregazione di piccole realtà locali dove queste storie sono nate e dove si conservano con maggiore facilità. I luoghi ed i modi del mangiare sono da sempre legati alle pause, ai momenti di meditazione, allo stare insieme. Parafrasando Focault: al sapere, al piacere, alla cura di sé. In modo particolare questo è vero in tutto il mediterraneo, patria di un modo di mangiare oggi patrimonio dell’umanità.
La cucina è il luogo del racconto, il camino quello della memoria. “Storie de fogu” chiamano in Sardegna i racconti intorno al fuoco, quelle storie in cui l’immaginazione si intreccia alle antiche tradizioni, ai rituali di sempre che danno vita a valori comportamentali, a principi di vita, a regole su cui basare le proprie azioni quotidiane, in una parola ad una cultura. Cultura che evolve, cambia, si adatta, crea e trasmette, protegge, guida, dà sapore alla vita, quando la gente migra e le culture si mescolano lasciando tracce indelebili nelle nuove civiltà che costruiscono. La scoperta dell’America, meno male che c’è stata, perfino la pizza, il più mediterraneo dei prodotti contiene un ingrediente di origine Americana e se non l’avessimo scoperta oggi non esisterebbe. Dunque tutta la civiltà mediterranea si può raccontare attraverso scoperte ed unioni di ingredienti diversi, perché è una storia fatta da popoli migranti, da contaminazioni felici a partire da quella principessa Fenicia che cavalcando un toro divino migrò oltre il mare per dare il suo nome ad un intero continente. Si chiamava Europa quella principessa. Noi la chiamiamo ancora così.
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