Gigi Proietti ci ha lasciati nel giorno del suo ottantesimo compleanno e i romani, per ricordarlo, piangono e ridono con il Cavaliere nero, con Toto che s’è liqueso, col fischio maschio senza raschio, con il Lonfo, con Mandrake o con Tu mai rottoercà.
Piuttosto che soffermarmi sulle innumerevoli occasioni di incontro e di scambio artistico che ho avuto la fortuna di avere con Giggi in questi anni (quand’eravamo “attori co le brecchetelle” e sognavamo de mette un tendone pe’ quartiere pe fa venì er popolo a teatro) preferisco – anche attraverso le sue parole – ricordare l’artista, l’uomo di cultura e il romano de Roma.
Una signora romana di ottantaquattro anni ha scritto, su un foglio lasciato sul muretto pieno di fiori davanti all’ingresso della clinica Villa Margherita: “Sono una donna del popolo e ti ho sempre considerato tale”.
Sembra di sentire la sua orgogliosa affermazione “Civis Romanus sum”. Un cittadino che ama la sua città e al servizio di essa vive il suo percorso d’artista con un rapporto pieno, forte, indissolubile che produce comune sentire, aggregazione e benessere.
Il suo amore per Roma si ritrova in ogni momento della sua vita “Amo anche la muffa delle fontane quando sono a secco”. “Villa Borghese, un luogo della mia infanzia, dove sono tornato dato che ho avuto la fortuna di incontrare un sindaco lungimirante, che era Veltroni, che capì l’importanza di mettere su un teatro a Villa Borghese, dove Shakespeare fosse fruibile da tutti, soprattutto dai giovani”.
In una delle sue ultime interviste Proietti ricordava i sapori della città: “…Allora c’erano i fagottari… Mia madre diceva “stasera andiamo a cena fuori”, però la cena te la portavi. Fuori dalla trattoria c’era un cartello: “Accettanzi cibbi propi” accettanzi con la zeta, cibbi con due b e propri senza una r. Per noi era una grandissima festa. Mia madre faceva le cotolette panate, però col sugo, perché le doveva mettere dentro una pentola e se non c’era il sugo s’attaccavano. E allora venivano come una specie di pizzaiola, diciamo così, accatastate una sull’altra, e quando arrivava il momento di mangiare mamma ce diceva: “Una per una, mi raccomando”. E c’erano anche famiglie di amici. Questo m’è mancato poi all’improvviso, la conoscenza di altre persone, la comunità, il senso della comunità”.
“Parlando di Roma e dei romani – prosegue Proietti, evidenziando tutta la sua amarezza per quello che è diventata la Capitale – la città non è riuscita a diventare una comunità, è stata una città aperta e continua a esserlo ma qualcosa si è rotto… Roma è stata una città di pellegrini che si è svuotata, ma è unica, non puoi paragonarla a nessun’altra. Avrebbe bisogno di un tavolo con gente di statura internazionale che mettesse a punto un piano per risolvere i problemi”.
E quanta delusione nei confronti di una classe dirigente che ha perso la sintonia con il popolo: “Se vogliamo essere seri, non esiste un momento della civiltà nel quale gli anziani – ma chiamiamoli pure vecchi – non sono stati rispettati come è successo adesso… da almeno 35 anni a questa parte, dovremmo avere molte scuse da parte di chi ha organizzato la vita sociale, dai politici e dalla classe dirigente. Mi sono chiesto – conclude Proietti con un non dovuto accenno autocritico – se anche io ho qualche responsabilità”.
Quanta lungimiranza, senza troppi giri di parole, e quanta mancanza di quella spocchia della quale – spesso – si ammantano i pronunciamenti e le azioni di tanti colleghi e “maitre a penser”.
Ci si domanda come è possibile che un genio della scena come Proietti non sia mai stato preso in considerazione per dirigere il Teatro di Roma (l’Aquila sì)?
L’ex sindaco di Roma, Walter Veltroni nella cerimonia funebre al Globe Theatre così ha ricordato Proietti: “Era colto, aveva studiato, pensato e scritto ma ha cercato sempre di coniugare la qualità al pubblico. Era un intellettuale popolare, colto e semplice… Quando ascoltavi Gigi si aveva la rassicurante sensazione che dietro un’irrefrenabile risata c’era anche qualcos’altro di colto: ti sentivi più intelligente ridendo… far ridere gli altri è una virtù’ rarissima, la risata in un mondo ingrugnato ha un valore liberatorio, quasi rivoluzionario. Gigi adorava far ridere gli altri. Ovunque. Sempre”.
In uno dei suoi ultimi interventi – in occasione della presentazione della stagione teatrale del Globe – la sua analisi sulla importanza dei teatri e sul ruolo di aggregazione sociale che debbono continuare a svolgere e il suo appello a ricominciare il rapporto tra chi fa teatro e chi ne fruisce, confermavano la sua visione e la sua voglia di continuare ad essere un cittadino attivo, un intellettuale “popolare e organico”.
“Riaprire i teatri – afferma Proietti – è un gesto di coraggio. C’è voluta la mia “tigna”, come si dice a Roma, soprattutto per non voler fare una stagione di monologhi, ma di spettacoli ‘veri’. Speriamo non sia una mandrakata, perché Mandrake era convinto di aver fatto una furbata, ma poi non gli andava mica bene. Dovremmo prendere la palla al balzo e chiederci se il Teatro è qualcosa da continuare a fare. Da tempo auspico gli Stati Generali. Bisogna ripensare bene a cosa costano uno spettacolo e una tournée, rivedere i rapporti tra privato e istituzioni. Qui c’è qualche privato che dal ministero prende più soldi del pubblico. Ma io queste cose le dicevo anche prima del Covid. Qualcuno ci rideva pure… Il teatro andrebbe curato di più dalle istituzioni: abbassare i prezzi è possibile solo se lo Stato ci aiuta. Nella nostra città di Roma chiudono i teatri come i cinema, ed è chiuso anche il Valle, uno dei teatri più belli d’Europa, proprio in un momento in cui nulla potrebbe essere più aggregante del teatro, da vedere ma anche da fare. La cosa più pericolosa di oggi è il pensiero che si allontana, eppure il pubblico esiste, non si esprime ma c’è. Bisognerebbe ricominciare il rapporto tra chi fa teatro e chi lo fruisce… Negli anni la tv ha cambiato, in peggio, il pubblico che ora ride anche per cose che non fanno ridere. Però c’è sempre voglia di conoscere: al Globe, per esempio, rispettiamo la struttura drammaturgica di Shakespeare. Perché – concludeva Proietti – è sempre meglio prima leggere che rileggere”.
Il Globe, una parte del suo progetto di teatro popolare aperto al popolo, porterà il suo nome.
Insieme a questo meritato riconoscimento, la scelta più giusta, per onorarne la memoria, dovrebbe essere quella di tener conto – a tutti i livelli – di quanto in questi anni, sempre col suo modo garbato, sorridente e mai invadente, ci ha detto, proposto, consigliato confermando la sua lucidità, il suo impegno e la precisa collocazione politica, intellettuale e culturale: “Chi non sa ride, mi insospettisce. Non faccio né satira né politica, non ho mai avuto tentazioni di usare il palcoscenico per mandare messaggi. Il messaggio sono io. Quello che si crea a teatro è un consenso breve, non serve a formare governi. Dura una sera e finisce lì. “
Gigi Proietti, non ha mai negato la sua scelta di uomo progressista e di sinistra senza per questo pensarsi o proporsi come capopolo.
Ciao Gigi, chissà se, prima dell’ultimi sospiro, ripensando alla tua vita ti sei ripassato i versi del grande G.G. Belli che tante volte hai recitato?
Qua nun ze n’ esce: o ssemo giacubbini,
o credemo a la lègge der Ziggnore.
Si ce credemo, o minenti o ppaini,
la morte è un passo che ve gela er core.
Se curre a le commedie, a li festini,
se va ppe l’ostarie, se fa l’amore,
se trafica, s’impozzeno quadrini,
se fa d’ogn’erba un fascio … eppoi se more!
E doppo? doppo viengheno li guai.
Doppo c’è l’antra vita, un antro monno,
che dura sempre e nun finisce mai!
E’un penziere quer mai, che tte squinterna!
Eppuro, o bene o male, o a galla o affonno,
sta cana eternità dev’èsse eterna!
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