Erano inseparabili ed intercambiabili: quando James Comey era vice ministro della Giustizia, Bob Mueller era direttore dell’FBI. Poi Comey è passato all’FBI e Mueller al Ministero della Giustizia, entrambi repubblicani. A combinare guai aveva iniziato Comey, che, come direttore dell’FBI, prima non aveva avvertito gli interessati delle interferenze dei russi sulle elezioni presidenziali americane durante le fasi cruciali della campagna elettorale. In seguito, il 28 ottobre 2016 (a nove giorni dalle elezioni), Comey notificava al Congresso che l’FBI stava investigando sulle e-mail private del candidato presidenziale democratico Hillary Clinton. Due mesi prima lo stesso Comey aveva definito l’uso privato delle e-mail da parte di Clinton, come “noncurante”, ma senza implicazioni legali. Naturalmente, la riapertura dell’investigazione su Clinton aveva causato sgomento tra i democratici e gioia tra i repubblicani.
Anche per un non-addetto ai lavori, era chiaro che Comey stava scommettendo sulla vittoria di Donald Trump e si stava preparando al rinnovo del mandato. In seguito però, a soli 108 giorni dall’inizio della sua presidenza, Trump lo rimuove dall’FBI senza tante cerimonie (per Trump diventa poi il “viscido Comey”), e l’ex direttore finisce per spiegare nel suo libro uscito lo scorso aprile che “pensavo in una vittoria di Clinton”. L’FBI aveva iniziato ad investigare le interferenze dei russi sulle elezioni presidenziali Usa già nel luglio del 2016, quattro mesi dopo che il Fancy Bear, l’unità dell’intelligence russa, aveva rubato le e-mail di John Podesta, presidente del comitato per la campagna di Clinton, per farle diffondere da WikiLeaks (di Julian Assange). Intorno a questa storia poi i russi avevano fatto sviluppare una sotto-trama a proposito di un fantomatico traffico di bambini, divulgato come “pizzagate“.
Robert (Bob) Mueller entra in scena a dare inizio alla sua serie di guai nel maggio del 2017, quando il Ministero della Giustizia lo incarica di investigare le interferenze dei russi sulla campagna presidenziale del 2016. Il mese seguente, Mueller ci aggiunge un’investigazione su Trump per dei presunti “intralci alla giustizia”. Lo scorso 29 maggio, Mueller conclude le investigazioni e consegna un dossier di 448 pagine al Ministero, dopo aver messo sotto accusa 37 persone (tra cui 13 russi) e mandato in prigione cinque persone legate a Trump, tra cui il consulente per la campagna elettorale George Papadopoulos, il direttore della campagna Paul Manaford, l’avvocato personale Michael Cohen, e il consulente politico Roger Stone; mentre il consulente sulla sicurezza nazionale Michael Flynn è in attesa della sentenza.
Quando il dossier viene reso pubblico ad aprile (con molti paragrafi offuscati), si scopre che nonostante tutte le accuse, Mueller non giunge ad una conclusione chiara, il che permette all’attuale Ministro della Giustizia William Barr (il terzo nei 30 mesi della presidenza Trump) di dichiarare che i russi non hanno influenzato la campagna presidenziale e che Trump non ha intralciato la giustizia. A fine maggio rientra in scena Mueller che afferma in una rara conferenza stampa: “If we had had confidence that the president clearly did not commit a crime, we would have said so” (“Se avessimo avuto la certezza che il presidente chiaramente non avesse commesso un crimine, lo avremmo detto”). Per non essere da meno e completare la presa della proverbiale “vacca per le palle”, Comey dichiara pubblicamente di essere confuso sia dalla presa di posizione di Barr che da quella di Mueller.
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